Voci letterarie gettano un nuovo sguardo sul concetto di maternità

by Claudia

Koch, Chollet, Nelson, Kawakami e Donath nei loro testi riflettono sulle scelte delle donne e di come vengono accolte dalla società

Qual è quella persona provvista di utero che almeno una volta nella vita non si è sentita porre la fatidica domanda «hai figli?». Una domanda apparentemente banale che nasconde però un numero cospicuo di impliciti e che, a dipendenza della risposta data, appiccica sull’indagata un’etichetta della quale è molto difficile disfarsi. Se avere figli dà accesso alle sfere più alte dell’eteronormatività permettendo di integrare un gruppo apparentemente rassicurante di persone responsabili e «adulte», non averne fa invece spesso cadere su di sé un velo di sospetto. La domanda che naturalmente completa la prima è allora «perché?», come se il fatto di non volere o potere avere figli dovesse per forza essere giustificato. Scostarsi dalla norma, non seguire quello che sembra il destino di ogni essere umano, donne in primis, è spesso percepito come un affronto, una volontà deliberata di intaccare un meccanismo millenario sapientemente oliato. Sin dall’infanzia, l’idea che la maternità sia il culmine dell’identità profonda di ogni persona identificata come donna si fa inesorabilmente strada. Uscire da questa logica, sognare un destino altro, rimescolare le carte in tavola richiede allora una buona dose di coraggio.

E se, come auspicato da Koch, la donna «sola» fosse semplicemente «libera», libera dall’obbligo di trovare l’amore a tutti costi e fondare una famiglia? E se la zitella, non fosse una fallita ma una visionaria?

Che si tratti di coppie omosessuali o eterosessuali, la maternità è al centro di una normatività che, in un certo senso, sembra mettere tutti d’accordo. Se nei Paesi anglosassoni i concetti di childfree, ossia la scelta deliberata di non avere figli che si contrappone a quello di childless, essere senza figli per motivi che travalicano la volontà, sono entrati a tutti gli effetti nel vocabolario dando vita a gruppi di parola che rivendicano una vita al di fuori del bozzolo famigliare, alle nostre latitudini la situazione è ben diversa.

Sebbene il solo fatto di parlare di vite «alternative», ma anche degli inevitabili alti e bassi, delle contraddizioni e angosce propri dell’essere genitori, basti per provocare disagio, numerose sono le voci letterarie che, negli ultimi anni si sono innalzate con lo scopo di rileggere la maternità in modo più complesso e giusto. In ambito francofono, Marie Koch ha sicuramente toccato un tasto dolente decostruendo il personaggio della zitella. Nel suo libro del 2020 intitolato appunto Vieille fille (zitella in francese), l’autrice ne evidenzia la funzione sociale, l’incarnazione di un contro esempio ripugnante che ha lo scopo di mantenere le donne sulla retta via della maternità. Senza figli né marito, sola con i suoi gatti spelacchiati, brutta e trasandata, la zitella è messa alla gogna dalla società perché non è riuscita a compiere la propria missione. Come sottolineato da Koch, nonostante la donna celibe senza figli abbia con il tempo guadagnato in attrattività, la sua ragione d’essere si è però spesso spostata dai figli alla carriera come se dovesse in un certo senso colmare un manco percepito come inevitabile. Per non parlare poi delle «eroine» stile Bridget Jones che, fatalmente, dopo una trasformazione fisica infine completata, riescono, in extremis, a salvarsi da un destino di solitudine conquistando l’ultimo scapolo ancora disponibile. Una lezione che ci ricorda come, facendo un piccolo sforzo, ci si può ancora salvare. E se invece, come auspicato da Koch (lei stessa celibe senza figli), la donna «sola» fosse semplicemente «libera», libera dall’obbligo di trovare l’amore a tutti costi (trascorrendo un tempo considerevole alla ricerca di quella dolce metà che dovrebbe infine completarla), mettersi in coppia e fondare una famiglia? E se la zitella, invece di essere una fallita, una folle, fosse invece una visionaria? Cosa ne sarebbe della nostra società se ognuno di noi fosse davvero libero di scegliere? Sempre in ambito francofono, Mona Chollet si interessa anche lei alle anti eroine che hanno costellato la nostra storia, che sono state stigmatizzate in nome di una «normalità» da difendere a ogni costo: le streghe. Nel suo Sorcières, la giornalista e saggista franco-svizzera esplora tre archetipi di donne accusate di stregoneria: quelle celibi, senza figli o vedove. Avvalendosi di ritratti di donne che la storia ha incessantemente censurato e cancellato, Mona Chollet ci mostra quanto l’emarginazione e il maltrattamento scaturiscano dal bisogno di eliminare, mettendo in avanti la pericolosità di traiettorie vitali che si scostano dalla retta via. Malgrado oggigiorno parlare di streghe faccia quasi sorridere è innegabile che molti dei pregiudizi e delle rappresentazioni proprie a quante hanno sfidato le convenzioni, persistono.

Ci sono poi coloro che, seppur scegliendo di procreare, rifiutano di piegarsi all’immagine della buona madre devota alla famiglia che la società promuove senza badare a spese. Maggie Nelson, autrice dell’indomabile autobiografia Gli argonauti è sicuramente una delle portavoce più interessanti di questo movimento emancipatore che decostruisce l’idea stessa di coppia e di nucleo famigliare a favore di relazioni basate esclusivamente su un sentimento profondo di comunione. Scrittrice e poetessa, Maggie Nelson sposa l’artista transgender Harry Dodge diventando madre grazie alla fecondazione assistita. Quello che descrive, in uno stile ibrido fra narrazione e memoir, è l’incomprensione che la società manifesta nei confronti di un conglomerato di esseri umani che sfidano un sistema binario operante in ogni ambito: il genere, la maternità (buona o cattiva), la famiglia (accettabile o inaccettabile). Di una bellezza difficilmente definibile, Gli argonauti colpisce nel segno. Nella stessa logica si situa anche Seni e uova di Mieko Kawakami che sfida le regole della società nipponica, profondamente patriarcale, immaginando un concepimento «mostruoso» perché indipendente dal concetto di famiglia tradizionale formata da una mamma, un papà, uno o più figli. Kawakami si spinge persino più in là proponendo una procreazione fine a sé stessa in cui l’atto sessuale non fa più parte dell’equazione.

Audace e terribilmente onesto è indubbiamente anche Pentirsi di essere madri della sociologa israeliana Orna Donath. Nato da uno studio sulle donne ebree che, in Israele, decidono di non avere figli, il libro infrange uno dei tabù più forti ossia il pentimento di fronte a una maternità non scelta, ma indotta da un condizionamento sociale che passa pericolosamente inosservato. Ciò che colpisce nel libro è la devozione con la quale le numerose madri intervistate interpretano il proprio ruolo senza che nulla trapeli del loro disagio profondo. Questo perché la felicità, la completezza del ruolo di madre non possono in nessun caso essere rimesse in questione. Pentirsi di essere madri non vuole dissuadere nessuno dal procreare, la sua ambizione è piuttosto quella di far riflettere sulle pressioni esercitate dalla società per andare in una sola direzione. Coraggiose e ispiranti, queste autrici evidenziano quanto sia importante ridare ad ognuna la possibilità di scegliere coscientemente come vivere la propria vita riconnettendosi con i propri desideri profondi: con o senza figli, sole, in coppia o in comunità.

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