Poesia ◆ Ritratto del premio Nobel Louise Gluck
Louise Gluck, nata nel 1943 a New York, da una famiglia di immigrati ebrei ungheresi, ci ha lasciato lo scorso mese di ottobre e pensare che Ottobre, è il titolo di una delle poesie di Averno, libro uscito per il Saggiatore, subito dopo l’assegnazione del nobel nel 2020 ma ancor prima, nel 2019, dal benemerito editore napoletano Dante e Descartes, con la limpida traduzione in entrambi i casi, dell’anglista Massimo Bacigalupo. Ottobre quindi, a leggere bene tra i versi, in ricordo della tragedia dell’undici settembre 2001, che cambiò per sempre l’immaginario collettivo di ognuno di noi: <<…//Non mi fa bene; la violenza mi ha cambiato./Il mio corpo è diventato freddo come i campi spogli;/ora c’è solo la mia mente, cauta e guardinga;/con la sensazione di esser messa alla prova/…>>.
Ottobre anche, il mese dell’appassimento del fulgore estivo e presagio nelle sue spoglie, della nudità che verrà. Ecco questa grandissima poetessa dalla scrittura apparentemente piana, ruvida talvolta, ma così ricca di rimandi interiori, non poteva forse che andarsene in quel mese; forse questo un suo estremo segno involontario. Louise, che sapeva osservare con occhi rigorosi e al tempo struggenti la natura, dandole quasi una identità fraterna, perché meglio l’accompagnasse, nei suoi versi sempre pieni di domande ma così scarni di risposte: << …//Questa è la luce dell’autunno, non la luce della primavera./La luce dell’autunno: non sarai risparmiata./…//Questa è la luce dell’autunno, non la luce che dice/sono rinata/…>>. Già pluripremiata da decenni negli Stati Uniti, in Italia venne pubblicata per la prima volta, giova ricordarlo, dall’editore Giano nel 1992 con L’iris selvatico e dopo il massimo riconoscimento svedese, il Saggiatore come accennato, ha iniziato a tradurre molta della sua opera, attraverso il lavoro appassionato di Massimo Bacigalupo. Ricordiamo appunto: Averno, Ricette per l’inverno dal collettivo, L’ iris selvatico, Ararat, Marigold e Rose, Meadowlands, Notte virtuosa e Fedele. Ma davvero Louise Gluck è morta? Beh non credo, se pensiamo che la sua parola, sia sempre vissuta dentro il respiro della quotidianità, traendone da esso parabole chiare, talvolta oscure, date infine come dono alla interpretazione dei lettori. Se crediamo che la sua lingua, abbia con continuità costeggiato le sorgenti vive delle relazioni familiari, alla ricerca emozionata di quel groviglio di legami psicologici, che dentro vi si mescolano; li ricercò sì ma come contornandoli di una comprensione, che andava oltre ogni possibile dissidio:<<…/…Ti ricordi/ quando correvamo nel parco, a Cedarhurst,/saltando sopra i mucchi, guastandoli?/ Ma non avete mai saltato, disse mia madre./ Eravate brave bambine; restavate dove vi mettevo io./ Non nelle nostre teste,/disse mia sorella. La strinsi/fra le braccia. Sei proprio/una sorella coraggiosa,/dissi.>>
Ecco questa poetessa è nella sua opera, sempre dentro la complessità dell’attimo e nel verso, ecco darsi appuntamento storie lontane ed eterogenee; ciò che ne esce, è una realtà potenziata, ricca di possibilità, rivisitazioni della vita inaspettate. E per render pienamente ciò, l’autrice ha sempre intuito che occorresse misurarsi col mito classico, i suoi archetipi e così maestosamente li ha riproposti in una sua personalissima chiave, calandoli poi nella quotidianità ed essi, i miti, hanno risposto nei suoi libri sovrapponendosi, come un calco, alle piccole e grandi tragedie della sua esistenza. E certo l’origine ebraica, non poteva che inconsapevolmente formarla, tutto nel mondo per lei era scritto in una filigrana sottilmente escatologica e così il libro dal titolo Ararat, cos’è? a sfogliarlo, se non il richiamo simbolico, certo, al monte biblico ma anche chiave di lettura sulla morte del padre, che appunto non è più nei versi solo padre ma anche come per ogni psicologia femminile, nel bene e nel male, la figura delle figure. Ecco allora la poetessa, applicare, in Averno, alle trasformazioni fisiche adolescenziali, il mito di Persefone; quell’andare avanti di ogni corpo e trasformarsi dentro il dolore, lasciando dietro l’immensa nostalgia di qualcosa che però è scomparso per sempre. Ma ecco, in questo mito, riapparire anche la complessità della relazione materna e anche il ratto di Ade, che porta via la fanciulla e la sua identità che appunto più tornerà: <<Una estate lei va nel campo come al solito/indugiando un po’ al lago dove sovente/guarda se stessa, per vedere/ se nota un cambiamento…/…//Nessuno oggi capisce/ quanto lui fosse bello. Ma Persefone ricorda./Anche che l’ha abbracciata, lì sul posto,/con lo zio che guardava. Ricorda/i lampi del sole sulle braccia nude.//Questo è l’ultimo momento che ricorda chiaramente./Poi il dio oscuro la rapì./>>