Le storie di Veronica Raimo, occasione di libertà

by Claudia

Intervista  ◆  La scrittrice italiana, già vincitrice del Premio Strega Giovani, è da poco tornata in libreria con La vita è breve, eccetera

«La sperimentazione è considerata nociva, cioè ci si aspetta che un autore o un’autrice, dopo un romanzo di successo, ripeta quella formula magica all’infinito, o almeno per quella fetta di infinito che il mercato ha deciso di accordargli»: abbiamo incontrato Veronica Raimo autrice di Niente di vero (Einaudi, 2022), romanzo di grande successo, vincitore del Premio Strega Giovani e del Premio Viareggio. Con lei abbiamo dialogato del suo nuovo libro, la raccolta di racconti uscita a ottobre per Einaudi: La vita è breve, eccetera.

Dalla nota finale si evince che la raccolta contiene testi non tutti coevi: alcuni sono recenti, la maggior parte, mentre altri risalgono a vari anni fa. Rileggendo i racconti più lontani nel tempo, rispetto alla scrittura, allo stile e alla stessa trama prevale in lei l’estraniamento o il senso di appartenenza?
In realtà le due sensazioni sono molto mischiate, e non so bene quale prevalga. Credo sia lo stesso tipo di strano equilibrio, o forse sarebbe meglio dire squilibrio, che si ha rivedendo delle foto del nostro passato. Possiamo avere gli occhi del rimpianto per quello che non c’è più, o una forma di imbarazzo per cose che oggi ci appaiono ridicole. Di sicuro mi rendo conto di aver perso una certa fede nella letteratura, nella possibilità di creare trame arzigogolate o personaggi da manovrare come fossi una grande burattinaia. I racconti più antichi hanno ancora questa pretesa, questo incantamento. Quelli più recenti proprio no.

Le protagoniste dei suoi racconti hanno rapporti e a volte godono anche: questo aspetto risulta eccentrico rispetto alla consuetudinaria rappresentazione del sesso, descritto per lo più in modo romantico o tragico. Crede che la difficoltà nella narrativa italiana contemporanea di raccontare il desiderio e il piacere femminili sia specchio di una residua difficoltà nella vita reale ad agire la liberazione sessuale?
Purtroppo temo di sì. Si è accettato per anni che fossero gli uomini a raccontare il desiderio, anche quello femminile. Oggi che per fortuna ci sono molti più romanzi scritti da donne a imporsi nel mercato (mi spiace tirare fuori la parola mercato, ma di questo si parla, le donne prima scrivevano lo stesso, ma il mercato non se le filava), il desiderio femminile raccontato dalle scrittrici deve seguire una parabola intrinsecamente emancipatoria (una storia di riscatto da una sopraffazione patriarcale) o sentimentale (una storia di coronamento romantico) per essere accettata. Se una donna fa sesso e prova piacere al di fuori di questi due frame, viene vista come una provocazione, o peggio ancora come un’esperienza di per sé degradante.

«Dove abbiamo sbagliato? – La prima volta che ho sentito un amico formulare ad alta voce questa domanda, ho capito che era finito il nostro tempo. – Dài, che possiamo sbagliare ancora, – ho detto ridendo».Si tratta di un dialogo contenuto nel racconto Possiamo sbagliare ancora. A cosa addebita questa paura dell’errore e un’ansiosa ricerca del benessere che attanagliano la sua generazione?
Non so se sia stato l’avvento dei social a generare questa paura di sbagliare, cioè le possibili «shitstorm» e cancellazioni rispetto a un passo falso. C’è un’autrice che amo molto, Ursula K. Le Guin, che a distanza di dodici anni è tornata su uno dei suoi saggi più famosi: Il genere è necessario? Per smentire sé stessa e ammettere di aver sbagliato rispetto alla propria avversione per quello che oggi chiamiamo linguaggio inclusivo. Ammiro molto chi è aperto di fronte alla possibilità di cambiare idea o di ammettere un errore. Credo che in questo la traduzione mi abbia aiutato molto, cioè la consapevolezza che non esiste un solo modo giusto di tradurre un testo, e che qualsiasi traduzione è perfettibile e soggetta a cambiamenti.

Nel racconto Non si guardano i nani, per esempio il cane Gino strappa a chi legge risate piene, vere, non solo semplici sorrisi. Si è scorbellata anche lei componendolo? Più in generale si diverte mentre scrive testi che per chi legge sono molto spassosi?
Non parlerei proprio di divertimento, ma quando mi sembra che qualcosa funzioni a livello comico sicuramente ho un senso di soddisfazione piuttosto tangibile, che è molto più complesso da avere quando si scrive qualcosa che non è pensato per avere quell’effetto. Ed è una cosa molto piacevole da provare, perché spesso scrivere invece è un’operazione frustrante, che ti mette in una costante condizione di incertezza. Poi nello specifico il cane Gino è un personaggetto che mi ha dato la possibilità di creare una distrazione all’interno del racconto per lasciare in sospeso una tensione che rischiava di essere troppo automatica. Non sono una grande amante della suspence, quindi mi piaceva inserire il diversivo di un cane pazzo.

Nella sua raccolta echeggia spesso il tema della separazione, della rottura di una coppia, mentre è quasi del tutto assente la narrazione del dolore della solitudine. In effetti le due esperienze seppur correlate e spesso sovrapposte non coincidono. Ce ne parla?
In realtà me ne rendo conto ora che me lo fa notare, e mi sembra un’ottima osservazione, ma mi lascia un po’ spiazzata. In generale il rimpianto è sempre un innesco narrativo delle mie storie, anche se poi spesso ci si ritrova a rimpiangere qualcosa che in realtà non soltanto non desideriamo più, ma che ci creerebbe anche un bel problema ad avercelo. Quindi per me il dolore della solitudine è il dolore del rimpianto, che si trasforma comunque in una pienezza, perché è appunto la forma che assume il desiderio.

Nel racconto Totò una delle due protagoniste si ammanta della povertà come se fosse un vanto e lo fa senza remore nei riguardi di chi invece si trova in una condizione di reale disagio economico: la sua compagna, per esempio. Perché, nonostante gli epocali rivolgimenti politici e culturali, come già notava Cristina Campo nel 1962, ancora oggi per essere considerati degli intellettuali degni si sente il bisogno di rivendicare umili origini?
Mi fa molto sorridere questa domanda, e non so bene quale sia la motivazione che c’è dietro, soprattutto considerando che per anni le case editrici mainstream hanno pubblicato storie di vite borghesi (anzi altoborghesi) scritte da autori (alto)borghesi. Temo che come accade per molti fenomeni, il nuovo interesse per la letteratura working class derivi da una presa di coscienza nata in ambito anglofono. La stessa cosa che è avvenuta per la letteratura queer. Ovviamente è un bene che vengano immesse nel mercato voci diverse, ma al tempo stesso è sempre scivoloso il processo di appropriazione. Credo che il Booker Prize a Shuggie Bain di Douglas Stuart, e sicuramente anche il Nobel a Annie Ernaux, abbiano creato una richiesta di storie autobiografiche a partire da un vissuto sociale di subalternità e al tempo stesso abbiano generato una sorta di paranoia intorno al proprio privilegio di classe da parte di autori e autrici che non potevano rivendicare quel vissuto, tanto che a un certo punto hanno cominciato a fabbricarlo. Per com’è la storia del nostro Paese, non sarà così difficile andare a ripescare nonni contadini o nonne dedite a vendere patate al mercato, e ci è sembrato che quello potesse di per sé bastare a ripulirci dal nostro pedigree borghese.

Vige la convinzione che le raccolte di racconti abbiano, al di là della loro effettiva qualità, poca presa sul pubblico. La sua raccolta sta sfatando questo pregiudizio. C’è in effetti un piacere nella lettura dei racconti, un’occasione di libertà, per esempio nel rapporto con personaggi e personagge, che non è data dai romanzi. Che ne pensa?
Sono sempre stata una grande lettrice di racconti, e credo che certe storie possano trovare la loro dimensione ideale solo all’interno di una narrazione breve. L’interesse del mercato per i romanzi mi sembra che abbia una storia piuttosto recente. Solo vent’anni fa erano molte le case editrici a investire su autori e autrici di racconti, sia italiani che stranieri. Poi qualcosa è cambiato, e il romanzo si è imposto come «prodotto» commercialmente più appetibile. Ma non solo, è come se uno scrittore o una scrittrice adesso possa definirsi tale soltanto se affronta la «grande» prova del romanzo, e a quel punto i racconti finiscono per rappresentare una sorta di palestra, o di gavetta, in vista del traguardo reale. Lo considero un modo sbagliatissimo di vedere le cose, che crea una gerarchia fasulla tra le varie forme di espressione letteraria. C’è una scrittrice che è sempre stata un punto di riferimento per me, Ingeborg Bachmann, e nella sua produzione troviamo radiodrammi, poesie, opere teatrali, saggi, racconti e romanzi. Oggi l’idea che chi scrive possa sperimentare in diversi ambiti è visto invece come un problema, come se fosse una dispersione artistica. Ma forse più in generale la sperimentazione è considerata nociva, cioè ci si aspetta che un autore o un’autrice, dopo un romanzo di successo, ripeta quella formula magica all’infinito, o almeno per quella fetta di infinito che il mercato ha deciso di accordargli.

ABBONAMENTI
INSERZIONI PUBBLICITARIE
REDAZIONE
IMPRESSUM
UGC
INFORMAZIONI LEGALI

MIGROS TICINO
MIGROS
SCUOLA CLUB
PERCENTO CULTURALE
MIGROS TICINO
ACTIV FITNESS TICINO