La ricerca di un migliore equilibrio tra vita e lavoro

by Claudia

Tempi moderni – Sempre più persone, stanche o insoddisfatte della propria occupazione, si licenziano. Il fenomeno è affrontato da Francesca Coin, sociologa e docente alla SUPSI, nel suo libro intitolato «Le grandi dimissioni»

Si dovrebbe lavorare per vivere, e non il contrario. Eppure il lavoro è diventato sempre più totalizzante: erode il tempo che dovrebbe essere dedicato agli affetti e alle passioni, con stipendi e contratti non idonei all’impegno e agli sforzi richiesti. Ma c’è chi si ribella a questa situazione. Sempre più persone, infatti, lasciano impieghi faticosi, usuranti e sottopagati. Un fenomeno che si è consolidato durante la pandemia: i mesi di lockdown sono stati un momento di riflessione comune. Gruppi di lavoratori si sono organizzati per licenziarsi collettivamente in diversi settori. Le cause e le opportunità di questa situazione sono state analizzate in un libro appena pubblicato, intitolato Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita (Einaudi). L’autrice è Francesca Coin, sociologa e docente alla SUPSI. 

Francesca Coin, cosa sono le Grandi dimissioni?
Per Grandi dimissioni si intende una disaffezione al lavoro che ha portato milioni di persone, in tutto il mondo, a lasciare volontariamente il proprio impiego al termine della pandemia. Questo fenomeno si è palesato anzitutto negli Stati Uniti, dove ben 48 milioni di lavoratori hanno deciso di licenziarsi nel solo 2021.

Il fenomeno è internazionale. In quali Paesi è più consistente?
Questo fenomeno ha assunto forme diverse in base ai Paesi. In Cina, la disaffezione si è espressa con il movimento di protesta Tang ping (sdraiarsi) che nasce come resistenza culturale al 996, un sistema nel quale si deve lavorare dalle nove di mattina alle ventuno, per sei giorni alla settimana. La protesta è stata seguita da un altro movimento, Let it rot(lascialo marcire). Secondo Let it rot, un sistema che costringe intere generazioni a rimanere chine sulla scrivania per anni, per educarle al lavoro e alla competizione, e poi le abbandona alla disoccupazione, non funziona. Partecipare a un meccanismo del genere, che consuma la gente e poi la pianta in asso, relegandola ai margini della società, non ha senso. In India, il rapporto The Great X dell’agenzia di reclutamento Michael Page, pubblicato nel giugno 2022, avvisava che l’86 per cento dei lavoratori di tutti i settori, di ogni età e di qualunque livello aveva in mente di dimettersi nei sei mesi successivi. Sempre la stessa ricerca, indicava che il 61 per cento dei dipendenti era disposto ad accettare un salario più basso in cambio di un migliore equilibrio tra vita e lavoro. In diversi Paesi, dalla pandemia in poi, si è diffusa una controcultura che mette in discussione l’etica del lavoro e l’obbligo al lavoro salariato. Dopo anni in cui il mondo ha decantato le virtù dell’efficienza e della competizione, da più parti emerge l’urgenza culturale di liberare il tempo dal lavoro e di trovare un modo meno tossico e inquinante di produrre e consumare sul pianeta.

Lei scrive che le Grandi dimissioni sono uno «sciopero generale non dichiarato». Cosa intende?
Ho mutuato l’espressione da Robert Reich, ex Segretario del lavoro durante l’amministrazione Clinton. In un articolo sul «Guardian», Reich si domandava se l’elevato numero di dimissioni a cui stavamo assistendo non fosse una sorta disciopero generale non dichiarato: un modo disorganizzato per sottrarsi alle condizioni di lavoro esistenti. Reich vedeva una relazione tra gli scioperi e le fughe dal lavoro che si stavano diffondendo negli Stati Uniti. Dopo un anno e mezzo di pandemia, scriveva Reich, la domanda di lavoro era aumentata fortemente, ma l’offerta era diminuita. Sul mercato c’era un alto numero di posti vacanti per i quali non si riusciva a trovare personale. E non si tratta di carenza di manodopera. Mancano stipendi e tutele adeguate, servizi pubblici per l’infanzia, un salario minimo, il congedo di paternità obbligatorio, il riconoscimento economico, professionale e sociale nei luoghi di lavoro. Senza queste protezioni la classe lavoratrice non tornerà a lavorare, ha aggiunto Reich. E aveva ragione.

Come fanno a vivere le persone che si licenziano?
Dobbiamo chiederci come vivono le persone che non si dimettono. Nel libro riporto il caso di un’insegnante statunitense che lavora a tempo pieno e la sera consegna pizze perché non riesce a sopravvivere con un solo stipendio. E si domanda come possano fare le persone in situazioni simili alla sua. È una domanda che ci interroga tutti. Da anni si parla di lavoro povero, nei servizi, nel settore del commercio e ricettivo-ristorativo, i più colpiti dalla carenza di personale a livello internazionale. In questi comparti le paghe sono, spesso, così basse da diventare un disincentivo: la contropartita economica è insufficiente per giustificare i sacrifici di chi lavora.

Quali sono le soluzioni possibili per migliorare il mercato del lavoro?
Le soluzioni sono moltissime e, in diversi casi, convenienti per le aziende per le quali il reclutamento e la formazione del personale rappresentano un costo. A seconda del settore, ci sono diversi tipi di soluzioni: aumentare gli organici, ridotti all’osso da troppi anni di tagli; consentire una maggiore possibilità di programmare i propri turni; introdurre il lavoro da remoto; alzare i salari; migliorare le promozioni di carriera; ridurre l’orario a parità di retribuzione; introdurre il congedo genitoriale paritario e nuovi servizi per l’infanzia. Il giornalista ticinese Francesco Bonsaver ha osservato, in un articolo recente pubblicato su «Area», che alcune di queste riforme sono già state introdotte anche in Svizzera. Bonsaver ha raccontato come l’ospedale di Wetzikon, lo scorso anno, abbia contrastato l’alto tasso di abbandoni riducendo la settimana lavorativa da 42 a 37,8 ore. È una soluzione che costa meno di reclutare personale temporaneo. Un imprenditore del Canton Friburgo, a sua volta, ha deciso di abbassare le serrande del negozio il giorno con minor fatturato, il giovedì, per offrire la settimana lavorativa di quattro giorni a parità di paga ai suoi attuali e futuri collaboratori. Sono piccoli cambiamenti che consentono di attrarre personale, di aumentare la produttività e di dare continuità al processo produttivo. E non sono fantascienza: sono possibili.

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