Giornalismo al femminile 3 – Dal racconto del Covid ai settori «human interest», le donne nei media prediligono alcuni temi o vi ci sono relegate?
Le cifre della presenza delle donne nel giornalismo, oggetto del secondo articolo, non dicono tutto. Il femminismo radicale rivendica una parità che per ora rimane un obiettivo di medio se non di lungo termine. Ma vi è un aspetto della realtà mediatica che già oggi «aggira» quel tipo di giudizio materiale, spostando il discorso verso l’etica della comunicazione. A suggerirmi di approfondire questo tipo di lettura è un libricino scritto su incarico del Consiglio degli anziani del Canton Ticino, il tema: la qualità del rapporto con le persone anziane durante la pandemia. Questo tipo di rapporto ha un nome: si chiama «cura» e tocca una sfera al di qua (o al di là, come si preferisce) della salute fisica o mentale dei soggetti. Nell’esperienza vissuta durante la pandemia, tale cura è stata prestata in aperto e dichiarato contrasto con l’infelice prescrizione fatta agli anziani di «scomparire». Nel libro citato, motivazioni e azioni intraprese sono descritte con una sorta di pudore: come paresse eccessivo investire subito il piano etico, e «dir molto» sia uguale a «far poco». E, soprattutto, si evita di assegnarne il merito alla componente femminile della società.
L’interrogativo resta aperto, come sul fatto che le autrici predominano nettamente nelle tematiche dei media genericamente definibili «di cura»: come la salute, l’educazione, l’etica dei comportamenti. Può darsi – e il movimento femminista ha ragione quando sostiene questa tesi – che alle donne, venute tardi al giornalismo, quegli spazi siano stati assegnati semplicemente perché non occupati dagli uomini, come la politica, l’economia, la scienza. Si continua a riservare alle donne spazi residuali, meno di un terzo del totale, come dimostrato dalle ricerche descritte nel secondo articolo. Il fenomeno va seguito con molta attenzione anche quando si cerca di compensare questo squilibrio, come accade lodevolmente alla SSR. Nel giornalismo ogni esagerazione è di danno. Il più largo spazio che nei servizi di attualità della televisione pubblica si fa, per esempio, alla medicina e al tempo che fa, per sé è una buona cosa. Ma vi è un rischio – certamente non voluto – quello di un giornalismo ansiogeno, che dei temi ambientali o dei comportamenti a rischio per la salute fa un soggetto troppo insistito. Il rischio è minore nella stampa scritta, dove conta meno l’attualità immediata, si può far spazio a sfumature e coltivare l’equilibrio.
Non interessa, qui, fare il tifo per questo o quello, ma approfondire il senso di una mutazione in atto sostanzialmente positiva. Della «cura» come pratica di vita l’autrice più conosciuta tra quelle che hanno introdotto il termine è Martha Nussbaum (1947). Sia lei sia altre autrici rifiutano di incollarlo addosso al sesso femminile, puramente e semplicemente. Una di loro, Carol Gilligan, teorizza al massimo una propensione maschile verso un’etica legata alla norma universale, quella femminile invece più attenta alle persone. Poiché la «cura» si esercita con una pratica, il piano concettuale non è quello che per noi importa di più, ma può essere il luogo dove far convenire esperienze complementari, come l’«etica del riconoscimento», descritta da Lucio Cortella in un suo saggio recentissimo. Ciò che il soggetto coglie nell’altro è infatti «il desiderio di essere riconosciuto, e poi, inseparabilmente, rispettato nella sua autonomia».
A parte gli esempi descritti nel libricino sull’esperienza del Covid citato all’inizio, vi sono altri segni di interesse per la «cura» rilevabili nel mondo dei media più in generale? Conosco poco il mondo dei social networks ma apprezzo la possibilità che offrono di un rapporto «personale» con l’interlocutore. Anche nei media tradizionali mi pare di notare una maggiore attenzione per alcune patologie (l’isolamento dei giovani, la violenza coniugale, gli stupefacenti), la cura delle quali esige un impegno che va oltre la pura fattualità medico-psicologica. Tutto grazie alle donne-giornaliste? Non necessariamente. Ma dovrei almeno spiegarmi perché, cinquant’anni fa, queste tematiche non interessavano i giornali, oppure vi mantenevano una posizione laterale e subordinata (la «pagina della donna»).
Un’ultima osservazione. Questo tipo di attenzione può fare da contrappeso alla quantità dei dati serviti ogni giorno sul desk delle redazioni. L’apertura alle tematiche «di cura» deve perciò essere incoraggiata. Bisogna rafforzare i settori di human interest. Obiettivo a media scadenza rimanga naturalmente l’estensione alle donne di tutti i settori redazionali, dalla politica alla scienza, allo sport, alla religione. Ma subito dopo va riconosciuto che le tematiche identificabili come «cura» sono un progresso e un guadagno sociale, come la pandemia ha dimostrato.
Fine – Le puntate precedenti sono uscite sui numeri del 14.8 e del 11.9.2023