Itinerari di carta - Storie, luoghi e personaggi di una città che non c’è più, nel nuovo libro di Alberto Saibene
«È Milano quel paese / tutto pien di ragionieri, / messi a guardia dei forzieri / dove stanno i panettòn». La filastrocca di Paolo De Benedetti è ludica, ma coglie con arguzia alcune peculiarità milanesi: lo sviluppo tecnico-industriale, il primato finanziario e le eccellenze gastronomiche.
È lunghissimo l’elenco di testi (da citare almeno il medievale De Magnalibus urbis Mediolani di Bonvesin, l’intimo Ascolto il tuo cuore, città di Alberto Savinio, l’ormai classico Milano in mano di Guido Lopez, fino al recente e impietoso Le rovine di Milano di Giovanni Agosti) che si cimentano nell’impresa pressoché impossibile di raccontare il capoluogo lombardo. E forse è proprio la mancanza di un disegno unitario che rende affascinante il libro di Alberto Saibene da poco uscito presso Casagrande (Milano fine Novecento. Storie, luoghi e personaggi di una città che non c’è più): un calibrato assemblaggio di testi (disiecta membra, le definisce l’autore) compongono un ritratto appassionante e stratificato della città tra gli anni Cinquanta e Novanta del ventesimo secolo (Saibene, partecipe della vita culturale ed editoriale della città, ha conosciuto non pochi dei protagonisti).
La Milano di quei decenni fu davvero una vorticosa fucina di episodi, riviste, movimenti, tendenze, creatività, stili… insomma di cultura. Non che non lo pensassi, ma il libro di Saibene è così ricco di informazioni e personaggi che anche chi, come chi scrive, si piccava di essere un discreto conoscitore della metropoli, deve fare ammenda e riconoscere la competenza considerevole riversata sulla pagina con scrittura avvincente (illuminanti le pagine su Giancarlo Iliprandi, una figura ancora tutta da scoprire).
La Milano di quegli anni era una città effervescente, in cui il design si chiamava ancora grafica e decorazione, in cui l’apporto di innumerevoli «immigrati» milanesizzati (il pugliese Celentano, i triestini Strehler e Dorfles sono esempi emblematici) fu il lievito che la trasformò in una metropoli. E i cui sindaci (Greppi, Bucalossi, Aniasi) erano personaggi autorevoli, non le «figure di cartone» di oggi.
Dopo le distruzioni della guerra si respirava un’aria carica di entusiasmi e astratti furori. Il Piccolo Teatro acquisì una risonanza europea con i suoi cicli brechtiani; Brera era un calderone, con gli allievi dell’Accademia che dopo le lezioni si ritrovavano al bar Giamaica per cambiare il mondo tra fiumi di Barbera. Ma vanno citati almeno due altri luoghi che hanno fecondato la modernità milanese: la Fiera Campionaria, destinata a diventare il principale Salone del mobile a livello mondiale, e la Rinascente, che con il suo Ufficio Stile fu l’incubatrice di molte future star della pittura, del design, della fotografia, della moda, della scenografia e dell’architettura (negli anni vi collaborarono Gio Ponti, Marcello Dudovich, Massimo Campigli, Max Huber, Albe Steiner, Bruno Munari, Helmut Newton, Giancarlo Iliprandi, Mario Bellini, Bob Noorda, Ugo Mulas, Oliviero Toscani… un gruppo formidabile che contribuì a formare l’Italian Style).
Si dice che per scoprire le bellezze di Milano bisogna scavare sotto il suo grigiore apparente. Ciò è vero anzitutto per una ragione geologica: nel terreno paludoso in cui è sorta Mediolanum non c’è un sasso, ogni pietra è stata portata da lontano e ogni costruzione antica è diventata la cava da cui trarre i materiali per edificare il palazzo successivo. Quindi per vedere la città romana bisogna scendere sottoterra (posso testimoniare che per accedere a uno dei siti più affascinanti della città è necessario far bloccare una linea del tram e infilarsi attraverso una botola posta tra i binari).
Un’altra peculiarità milanese sono le case-museo, luoghi esclusivi che i raffinati proprietari hanno lasciato in eredità alla cittadinanza (la rinascimentale Poldi Pezzoli, la folle Bagatti Valsecchi, la futurista Boschi Di Stefano, la novecentesca Necchi Campiglio, la maniacale Mangini Bonomi).
Se è vero che a ogni città tocca il suo decennio di splendore, dopo il decennio di Berlino, dopo quello di Barcellona, si potrebbe pensare che la pandemia abbia interrotto sul più bello il decennio milanese. Soprattutto dopo il boom dell’Expo essa appariva infatti come una piccola Parigi, con le sue quasi infinite occasioni di arricchimento culturale come il Mudec, l’Hangar Bicocca, il distretto del design di via Tortona, la Triennale, Brera valorizzata dal nuovo direttore James Bradburne, il Fuorisalone, la Milanesiana, le Gallerie d’Italia, la Fondazione Prada, il Museo del cinema, il Museo del fumetto, la Fondazione Forma, i sei musei del Castello Sforzesco, i cinquanta teatri, le millecinquecento case editrici, le sei università, la Scala, il Cenacolo…
In un momento così cupo, il bel libro di Alberto Saibene è un segno di speranza: tornare a visitare una città così culturalmente vicina a noi e così stimolante che quando ci si va, come ha detto una volta Christian Marazzi, ci si sente più vivi.