La fine di ogni Cosa

by Claudia

Salvatore Totò Riina – Il capo dei capi della mafia siciliana, che era arrivato a dichiarare guerra allo Stato italiano, è morto in carcere portando via con sé molti segreti

Adesso riposano assieme a Corleone in questo singolare Famedio del Male: Michele Navarra, Luciano Leggio, Calogero Bagarella, Bernardo Provenzano, Totò Riina. Un medico e quattro semianalfabeti braccianti agricoli, capaci però di sconvolgere il corso dell’Italia repubblicana. Nel 1944 Navarra è il quarantenne medico condotto dell’antico bastione normanno, dal quale si controlla l’accesso agli aranceti della Conca d’Oro e alla polverosa strada statale 118, che conduce a Palermo. Navarra è anche il direttore dell’ospedale, il fiduciario del più grande istituto assicurativo e, grazie alla benevolenza delle autorità militari Usa, le quali hanno regalato i Dodge abbandonati dalle truppe, il fondatore della prima società siciliana di collegamento interurbano. Ma Navarra è soprattutto il capomafia di Corleone: l’hanno aiutato la discendenza parentale e l’attenta gestione del potere tesa ad accontentare gli altri boss locali.
Il braccio destro di Navarra è lo scatenato diciannovenne Luciano Leggio, assassino del sindacalista Placido Rizzotto e molto probabilmente pure di Salvatore Giuliano, il più importante bandito del Novecento italiano assurto a fama mondiale grazie alle trame prima dell’Oss e poi della Cia. Proprio nella relazione conclusiva dell’omicidio Rizzotto, risolto dal giovane capitano dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, il cognome è diventato, per un errore di battitura, Liggio. Da latitante Lucianeddu ha raccolto attorno a se i giovanissimi ammiratori, ansiosi d’imitarlo per sfuggire alla miseria e alla fame. Da subito la roba, il suo possesso a ogni costo diventano la stella cometa del gruppetto, che Leggio a metà degli anni Cinquanta raduna in un casolare dei boschi della Ficuzza per avviare il florido commercio della macellazione clandestina. Li uniscono rapporti di sangue, di amicizia, di vicinato.
Abbondano i nipoti e i cugini di Leggio con l’aggiunta dello zio Leoluca nel ruolo di saggio: il suo sodale più caro è Giacomo Riina pronto a suggerire l’arruolamento del nipote Totò appena scarcerato con considerevole sconto di pena per l’omicidio commesso nel 1949. «U curtu» ha alle spalle un’infanzia di lacrime e povertà culminate con la morte, nel 1940, del padre e del fratello Giuseppe mentre tentavano di estrarre l’esplosivo da una bomba. Riina porta con sé il fratello minore Gaetano a sua volta sponsor di un coetaneo dai prolungati silenzi, Bernardo Provenzano. Apre la bocca soltanto per chiedere se può far entrare nel giro un picciotto di valore, che ha nel cuore, Calogero Bagarella. Questi si presenta accompagnato dal fratellino con i pantaloni corti, Leoluca. Per dirla con Mao, l’assalto al cielo può cominciare. E i corleonesi, definiti i «viddani» per la bassa estrazione sociale, maoisti a loro insaputa lo risultano anche in altri aspetti. Sono i proletari della mafia, convinti che il potere cammini sulle canne dei fucili; si muovono dalle campagne per impadronirsi delle città; ne ammazzano cento per educarne dieci (Mao più moderato suggeriva di ammazzarne dieci per educarne cento).
Il primo da eliminare è Michele Navarra, se ne occupa Leggio. È il via a una sanguinosissima guerra civile corleonese terminata nel 1963 con lo sterminio di tutti i nemici del clan. Sparatorie, fughe, morti favoriscono un rapporto assai stretto fra Bernardo Provenzano e Totò Riina. Vengono promossi ad angeli custodi di Leggio, dopo la sua cattura del ’64, dentro il letto della fidanzata di Rizzotto, e la clamorosa assoluzione del ’69. I due procedono appaiati, però non sono amici. Riina è dotato di notevole astuzia e di una ferocia che non si ferma dinanzi ad alcuna empietà. Provenzano è stimatissimo per l’abilità con le armi, «spara come un dio», ma a causa del carattere introverso gli attribuiscono il «cervello di una gallina». Lo crede pure Riina: non avendo voglia di rischiare la pelle delega le missioni punitive a Provenzano, «che tanto non capisce». 
Viceversa Binnu «u tratturi» capisce a tal punto che dopo la conquista di Palermo e l’asservimento della Sicilia preferisce ritagliarsi un ruolo appartato per non suscitare improvvise gelosie. Trasferisce la famiglia dal fratello in Germania, anch’egli vi trascorre molti periodi lontano dalla furia sanguinaria del compare impegnato in un selvaggio repulisti a scapito delle rinomate famiglie mafiose su piazza dall’Ottocento, Bontate, Inzerillo, Badalamenti, Greco, Di Maggio, Spatola. Gli amici scoprono che a Riina, quando non si corrono pericoli, piace strangolare le vittime con le proprie mani pronunciando una sorta di sentenza: «Acca finisce ’a storia». Provenzano, viceversa, preferisce dedicarsi alla compilazione delle liste elettorali attraverso il rapporto privilegiato con Vito Ciancimino, il figlio del barbiere di Corleone, che gli dava ripetizioni di aritmetica e si vanterà sino alla morte di esser stato l’unico ad avergli rifilato più di una sberla quando sbagliava le operazioni.
Per un ventennio Riina esercita una supremazia assoluta; asservisce politici, industriali, professionisti, funzionari pubblici; le vaste protezioni gli permettono prima di sposare l’eterna fidanzata Ninetta Bagarella, in seguito di far nascere i quattro figli nella più lussuosa clinica palermitana e di denunciarli all’anagrafe; incassa tangenti in ogni provincia dell’isola su ogni appalto, su ogni concessione, su ogni compravendita. Durante un festeggiamento bagnato dall’amato champagne «mosciandonne» si bea di riscuotere tasse come lo Stato. È sicuro di esserne una controparte dotata di eguali poteri e in grado di contrattare qualsiasi provvedimento. A cambiare il corso della cronaca è la nomina di Falcone, nel 1991, a direttore generale degli Affari Penali del ministero di Grazia e Giustizia. In pochi mesi Falcone riporta in galera i mafiosi liberati dall’ennesimo verdetto favorevole della Cassazione e per di più sottrae i processi alla sezione presieduta dal giudice Carnevale, implacabile demolitore di qualsiasi condanna. Riina imbelva e reagisce nell’unica maniera che conosce: il terrore, le ammazzatine indiscriminate, bambini compresi («Forse che a Sarajevo non uccidono anche i picciriddi?»).
La serie è aperta da Salvo Lima, il democristiano fedelissimo di Andreotti, cinico gestore per oltre trent’anni dei più perversi intrecci tra mafia, politica, imprenditoria e massoneria. Il secondo della lista sarebbe il ministro dell’Agricoltura Mannino, invece Riina cambia obiettivo, punta su Falcone. Il trentenne rampante Matteo Messina Denaro guida la squadretta di killer incaricata di farlo fuori a Roma assieme al presentatore televisivo Costanzo, che si salva dal tritolo per una questione di secondi, e al ministro di Grazia e Giustizia, Martelli, troppo protetto. Al contrario, Falcone si muove senza scorta e sarebbe un obiettivo facilissimo. Improvvisamente Riina cambia idea: anziché nella Capitale, dove sarebbe stato facile negare o respingere le responsabilità di Cosa Nostra, Falcone va sotterrato a Palermo con un’assunzione di colpa, della quale sarà comunque pagato un prezzo elevatissimo.
Chi convince Riina alla scelta, che decreterà la fine del suo dominio? Che cosa gli viene promesso in cambio? Perché in ogni caso non può tirarsi indietro? Ecco il vero, grande mistero che ha portato con sé nella tomba. La strage di Capaci («l’attentatuni») assume una dimensione terroristica: soltanto la fortuna restringe il numero delle vittime a cinque. L’eliminazione di Falcone ha come conseguenza l’obbligatoria eliminazione di Borsellino, l’erede, il confidente, l’unico a conoscenza dei suoi segreti. E noi possiamo soltanto immaginare che riguardassero il consueto impasto di complicità inconfessabili fra re di denari, mafiosi, agenti dei servizi segreti, apparati dello Stato. Addirittura in via D’Amelio, secondo Leoluca Bagarella, il cognato e l’esecutore più spietato, Riina avrebbe subìto le decisioni altrui, si sarebbe limitato a fornire la Fiat 126 imbottita di esplosivo, che macellò Borsellino e i cinque agenti di scorta. Venticinque anni dopo sono ancora ignoti il luogo, in cui si posizionò il killer con il timer e la sua identità.
Una simile sfida allo Stato non poteva che essere persa. Sull’ingabbiatura di Riina incidono le indagini dei carabinieri, seppure fra diverse ambiguità, e la voglia di Provenzano di sfruttare la situazione per ascendere al trono. La sua Cosa Nostra finisce di essere un’emergenza nazionale, s’inabissa occupandosi soltanto degli affari, ligia alla regola aurea sancita da Tano Badalamenti prima della fuga: «La mafia per prosperare dev’essere sempre governativa, come la Fiat». A Riina tocca assistere da una cella di massima sicurezza e nel massimo rigore all’epilogo del suo folle sogno di Antistato. Rifiuta qualsiasi accenno di collaborazione nella speranza di salvare la roba, ne è stata rintracciata pochissima.
Il suo nome viene usato dagli aspiranti eredi per legittimarsi, benché la sua influenza da dietro le sbarre sia quasi nulla. Se la prende con il pupillo di un tempo, Messina Denaro, accusato di pensare soltanto ai propri interessi («le sue pale eoliche, saprei io dove infilargliele…»). Ammesso che sia vivo, è difficile che Messina Denaro possa esserne il successore. La nuova mafia, demolita da vent’anni di arresti e di decessi, non riuscirà a conservare l’unicità che ne aveva decretato il successo dal 1970 agli arresti eccellenti del 2006-2008. Forse è cominciata la parabola discendente come predetto da Falcone: «Non c’è cosa che non abbia sempre la sua fine».