Quando gli scrittori vanno in vacanza

by Claudia

Tra il ludico e il dilettevole - Da Roland Barthes a David Foster Wallace, passando per Michele Serra, ecco come gli autori vedono le ferie estive

Anche gli scrittori, ogni tanto, vanno in vacanza. E magari, mentre si godono un po’ di relax estivo, vengono immortalati, a loro insaputa, da qualche fotografo un po’ ficcanaso che, scattando una foto, spera di ricavare una storia. Non parleremo in verità di soli scrittori che vanno in vacanza, ma di un critico, di un giornalista, e sì, anche di uno scrittore che, con occhio addestrato e penna affilata, raccontano le vacanze degli altri: perlopiù gente comune che, pensando di fuggire da una vita banale, rimane intrappolata nelle maglie del consumismo sfrenato.
Fra il 1954 e il 1956 il critico letterario e semiologo Roland Barthes scrisse quei brevi saggi che poi confluirono in Mythologies (Miti d’oggi), volumetto oggi tanto acclamato. Partendo da materiali disparati – articoli di giornale, fotografie su riviste, film, mostre, o altri eventi mondani – Barthes tenta un’impresa che all’epoca era una novità: decodificare i vizi e i vezzi tipici di una società ampiamente sedotta dal consumismo. Esposto a quel caleidoscopico insieme di dettagli e di eventi che gli offre l’attualità, il critico restituisce in maniera brillante la trama dell’immaginario collettivo: quell’insieme di sogni, aspettative, desideri e frustrazioni che segnano il mood di un’epoca.
Il mondo del catch, Giocattoli, Il viso della Garbo, Il Tour de France come epopea, Strip-tease, Astrologia, La nuova Citroën sono alcuni dei titoli raccolti nei Miti d’oggi. In un altro breve testo, intitolato Lo scrittore in vacanza, Barthes si sofferma sul modo in cui la stampa parigina rappresenta, attraverso una lente idealizzante, l’immagine dell’uomo di lettere in vacanza. Da un individuo dalla sensibilità sopraffina – qual è lo scrittore trasfigurato dall’immaginario collettivo –, ci si sorprende, per esempio, che possa affrontare un’attività così prosaica come una vacanza, andando in spiaggia e dichiarando di amare le belle ragazze in costume.
Pur prestandosi ai riti estivi che lo avvicinano al comune vacanziero, nell’immaginario francese l’uomo di lettere, nota Barthes, rimane circondato dall’aura di eccezionalità che lo distingue dalla massa. Anche in vacanza, lo scrittore non smette mai veramente di essere uno scrittore, e non potrebbe essere altrimenti: «A provare la meravigliosa singolarità dello scrittore è il fatto che egli, nel corso di queste famose vacanze che fraternamente divide con gli operai e i commessi, non smette, se non di lavorare, almeno di produrre. (…) Uno scrive dei suoi ricordi, un altro corregge bozze, il terzo prepara il suo prossimo libro».
Nel potere trascendente della scrittura, continua Barthes, si manifesta la natura di supereroe dell’uomo di lettere, giacché la necessità perentoria della sua scrittura «assimila la produzione letteraria a una sorta di secrezione involontaria, dunque tabù perché sfugge agli umani determinismi». Tanto che, conclude il critico francese, «lo scrittore è preda di un dio interiore che parla in ogni momento, senza preoccuparsi, il tiranno, delle vacanze del suo tramite. Gli scrittori sono in vacanza, ma la loro Musa è desta, e partorisce senza tregua».
Sempre di vacanze, questa volta italiane, si occupa un altro volumetto che, pur non avendo la notorietà dei Miti d’oggi, ha comunque conosciuto una fortunata storia editoriale. Il riferimento è al giornalista de «L’Unità» Michele Serra, e al suo Tutti al mare, uscito nel 1986 e poi ristampato da Feltrinelli nel 1990. Differentemente da quanto succede in Barthes, qui non si tratta di riprendere un articolo sul tema delle vacanze, ma di mettersi in prima linea per realizzare un reportage giornalistico.
A bordo di una Panda 4X4 sponsorizzata dalla Fiat, nel 1985 Michele Serra decide infatti di percorrere le coste italiane con un programma ben definito: documentare in presa diretta, in una sorta di diario di viaggio da Ventimiglia a Trieste, l’esperienza del viaggiatore che di giorno in giorno visita località marittime, incontra la fauna locale, pernotta in alberghi più o meno raccomandabili e, non da ultimo, deve gestire le incognite del traffico e le impreviste deviazioni. Da quell’insolito incarico nascono una serie di testi, inizialmente pubblicati su «L’Unità» nell’agosto dell’85, elaborati in condizioni non sempre facili: «Dovevo scrivere tutte le sere fidandomi solo della mia sensibilità – racconta il giornalista nell’introduzione al volume uscito nell’86–, non avendo altro filo conduttore che il dovere-piacere di scrivere». Ma l’obiettivo dichiarato non è tanto di realizzare un’inchiesta esaustiva e oggettiva, quanto piuttosto «di trasformare in articoli di giornale impressioni, riflessioni e piccole avventure di un italiano che viaggia in Italia».
A rileggerlo oggi, il volumetto di Serra mantiene ancora quella freschezza che doveva avere all’epoca, e l’attualità dell’opera deve molto al fatto che, scritta in prima persona, racconta aneddoti e dettagli che contraddistinguono la variopinta umanità che, anno dopo anno, affolla le spiagge come se cercasse la Terra promessa. La cultura della spiaggia, viene da dire, mantiene qualcosa del ciclico ritorno delle stagioni. Serra non tralascia neppure accenni, peraltro giustificati, di critica sociale, dettati dalle condizioni non sempre esemplari in cui sono tenute le spiagge che visita.
Per completare il nostro excursus all’insegna del binomio fra il mestiere della scrittura e le vacanze, abbiamo pensato all’esperienza della crociera. A parlarne, anche qui in prima persona, è il noto scrittore americano David Foster Wallace, che negli anni Novanta accetta l’incarico, affidatogli dalla rivista «Harper’s», di prendere parte a una crociera extralusso ai Caraibi. Trattandosi di Wallace, ne viene fuori un reportage narrativo quanto più lontano da un resoconto incondizionatamente entusiastico che indugia su un mare limpidissimo, su un tramonto mozzafiato, e che tesse le lodi di spiagge dorate.
A catturare l’attenzione di Wallace non è, infatti, quello che sta attorno alla nave (il mare, l’orizzonte, le spiagge eccetera), ma piuttosto i passeggeri, con il loro corollario di caratteristiche e comportamenti. Il risultato è un dépaysement assoluto, una sorta di incredulità totale di fronte a uno spettacolo che, per quanto inconcepibile agli occhi dello scrittore, risulta essere incredibilmente vero. Si noti, a titolo di esempio, questo passaggio: «Ho sentito cittadini americani maggiorenni e benestanti che chiedevano all’Ufficio Relazioni con gli Ospiti se per fare snorkeling c’è bisogno di bagnarsi, se il tiro al piattello si fa all’aperto, se l’equipaggio dorme a bordo e a che ora è previsto il Buffet di Mezzanotte». Il tono delle parole, qui, sembra riecheggiare la solennità dell’incipit di quel grande poema americano della controcultura che è Owl di Allen Ginsberg o, ancora, le affermazioni di Cristoforo Colombo quando registra l’assoluta novità degli usi e dei costumi degli Indios. Solo che nelle parole di Wallace non c’è nessuna solennità (Ginsberg), o senso dell’eccezionalità (Colombo). Traspare invece un senso di vuoto, una venatura di assurdo che annuncia il lento e inesorabile declino della civiltà occidentale.