Reportage - A un secolo e mezzo dalla corsa all’oro nero che segnò la fortuna della Galizia c’è ancora qualche pozzo attivo a ricordare quell’incredibile epoca pionieristica
Sabato mattina la piazza della città vecchia di Przemyśl è affollata. La festa di san Vincenzo è un evento: i bambini corrono sul selciato lucido tra i chioschi di caramelle, gli uomini misurano lo scorrere del tempo con un boccale di birra e le donne chiacchierano in piccoli gruppi vocianti. Alcune di loro indossano abiti d’epoca, con corsetti e cappelli piumati. Sono vestiti che raccontano una ricchezza d’altri tempi, quando all’inizio del Novecento un fiume di denaro inaspettato inondò la regione.
La Galizia, oggi divisa tra Polonia e Ucraina, era allora l’estrema periferia orientale dell’impero austro-ungarico. Il petrolio spillava naturalmente dal sottosuolo, la terra ne era letteralmente imbevuta. Gli abitanti del posto erano abituati a quelle strane pozzanghere di liquido nero nei boschi; era denso e s’infiammava. Nessuno però fino alla metà dell’Ottocento aveva mai immaginato che ogni goccia di quel fluido si sarebbe trasformata di lì a poco in denaro sonante.
Ci vollero la scienza di un farmacista di Leopoli, Ignacy Łukasiewicz, e l’intraprendenza di un imprenditore canadese, William Henry McGarvey, per dare il via alla più grande corsa all’oro nero della storia d’Europa. «Cent’anni fa qui era un viavai di petrolieri, alti ufficiali, spie e avventurieri in cerca di fortuna» mi dice una delle donne, avvolgendo con un gesto del braccio inguantato di pizzo la piazza del paese. Sembra rimpiangere quel tempo.
La Przemyśl odierna è una polverosa cittadina di provincia ai piedi dei Carpazi. Le vetrine dei negozi con le insegne dipinte a mano e le pubblicità kitsch dei fast food stridono con le facciate color pastello degli edifici più opulenti. Cos’è rimasto di quel mondo fatto di pozzi, torri di trivellazione, pompe, raffinerie, oleodotti e ferrovie che fece della Galizia il quarto produttore di petrolio al mondo? «Sanok, devi andare a Sanok», è stata la risposta.
La strada che da Przemyśl porta a Sanok si srotola dolcemente dalle alture dei Precarpazi verso il corso del fiume San. In rete ho trovato qualche informazione sulla posizione dei vecchi pozzi ormai abbandonati. Prima che McGarvey, l’uomo d’affari canadese, fondasse nel 1882 la Galician-Karpathian Petroleum Company, i cacciatori d’oro nero raccoglievano l’«olio di roccia» direttamente dalle pozze naturali, con i secchi. Agli inizi il suo uso era limitato al proficuo mercato delle lampade a kerosene, inventate dal farmacista Łukasiewicz. Ma già nel 1909, l’intera produzione della regione superò i tredici milioni di barili, il quattro per cento di quella mondiale.
Il primo punto sulla mappa mi porta in mezzo ai cortili di alcune case alla periferia di Sanok. L’erba è tagliata di fresco, ci sono dei giochi per bambini. L’uomo a torso nudo che si affaccia al balcone scuote la testa: «Non c’è più niente qua, da tanto tempo. Di là c’è il fiume, dall’altra parte c’è qualcosa. Ma devi andare fino a Krosno». Proprio dove indica il mio secondo punto GPS.
Durante la Grande guerra fu la Galizia a fornire all’esercito il petrolio di cui aveva bisogno. Il fronte orientale fu però presto perso, così come le immense fortune accumulate da McGarvey. Sotto la nuova Polonia indipendente la produzione crollò a meno della metà. Si avviarono nuove prospezioni, ma durò comunque poco; un altro conflitto mondiale era alle porte e nel 1939 i nazisti invasero il Paese. Quando nel secondo dopoguerra la Polonia entrò nell’orbita sovietica le compagnie petrolifere furono nazionalizzate. L’epoca pionieristica dell’oro nero della Galizia era finita.
L’industria di Stato creò a Krosno stabilimenti e raffinerie, ma sorsero anche una scuola e un istituto superiore per tecnici petroliferi. Ancora oggi, passeggiando per le sue strade, s’incontrano una via Naftowa, un hotel Nafta, un ristorante Naftaya; e un tempo c’era anche il giornale Nafta. Passando davanti alla scuola Naftowka (ovviamente), in un campo incolto al lato della via scorgo un mucchio di vecchi macchinari arrugginiti. Ma sono solo attrezzi agricoli lasciati lì a marcire. Chiedo a dei passanti, nessuno sa niente. Finché una signora che parla qualche parola di italiano mi dice che lì hanno smantellato tutto. «Bóbrka, devi andare a Bóbrka», mi incita.
Con la caduta del Muro di Berlino e l’apertura della Polonia all’Occidente i campi petroliferi furono abbandonati. Le strutture di legno marcirono, quelle di ferro arrugginirono. I giacimenti si andarono esaurendo, le tecniche di estrazione si fecero più raffinate, gli investimenti si spostarono sulle piattaforme offshore. Le nuove regole ambientali hanno poi imposto di disfarsi dei resti di un’industria che ha fatto il suo tempo; alcuni macchinari sono finiti in un museo all’aria aperta. Eppure, penso, qualcosa ancora dev’essere rimasto.
Ho un ultimo punto GPS segnato, è proprio vicino a Bóbrka. È lì che tutto ha avuto inizio, con il primo pozzo della storia, quello scavato da Łukasiewicz nel 1854. La strada che scende per i boschi da Krosno si fa via via più stretta. Un bivio è segnalato con una specie di grosso pignone rugginoso, una vecchia rete corre lungo il ciglio. A un incrocio un pozzo a bilanciere langue tra le sterpaglie e rottami di ferro.
Mi guardo attorno e tra i pini e i faggi scorgo altri pozzi; alcuni sono esili cavalletti alti non più di quattro metri, sembrano miniature. Da dietro una baracca spunta un uomo; è incuriosito dalla mia curiosità. «Sono gli ultimi rimasti di quelli di un tempo. Prima o poi smantelleranno anche questi e resteranno solo quelli in funzione; almeno finché qui sotto ci sarà ancora greggio». Non afferro all’istante. Mi sta dicendo che ci sono dei pozzi che ancora succhiano petrolio, proprio qui a Bóbrka, a distanza di un secolo e mezzo? «Certo, ce n’è uno proprio qua vicino», mi spiega.
Lo guardo meglio. Indossa una maglietta della compagnia petrolifera polacca; sa di cosa sta parlando. Mi fa cenno di seguirlo per un sentiero, va dritto nel bosco. Saltiamo un tronco caduto ricoperto di muschio, mi mette una mano sulla spalla e indica davanti a noi, tra le fronde. «Eccolo lì, lo vedi? Sta pompando».