Un test per la democrazia?

by Claudia

Ai tempi del coronavirus – Cina e Italia adottano modelli di contenimento autoritari. Mentre in Europa, Corea e in parte anche Giappone c’è libertà assoluta. È scontro fra sistemi in un momento di rinascita dei nazionalismi

Intorno alle undici e mezzo di lunedì scorso un uomo di cinquant’anni stava facendo la fila a un ufficio postale del distretto di Jung-gu, nella città sudcoreana di Daegu. È lì, infatti, che vengono distribuiti ai cittadini i presìdi di protezione, mascherine e guanti, per tentare di limitare il contagio del nuovo coronavirus. Un giornalista della tv pubblica sudcoreana KBS gli si avvicina, gli fa qualche domanda, e l’uomo spiega di essere stato trovato positivo al virus poche ore prima, ma che aveva comunque bisogno di andare a prendere le mascherine. Il giornalista gli dice di tornare a casa, poi avverte la polizia. Nel giro di qualche minuto un’auto con personale medico raggiunge l’infetto potenzialmente contagioso e lo accompagna in isolamento. Anche il giornalista viene costretto alla quarantena.
È la nuova normalità in Corea del sud, dove il numero di contagiati ha superato la scorsa settimana quello nella provincia dello Hubei, in Cina, dove tutto è iniziato. Giappone, Corea del sud e Italia sono tra i paesi con il più alto numero di contagi da Covid-19 eppure le immagini delle lunghe file davanti agli uffici postali, nelle città più a rischio come Daegu, arrivano soltanto da Giappone e Corea. Nessuna zona rossa, nessun ordine restrittivo. I modelli di contenimento scelti dal governo di Seul e, in misura minore, da quello di Tokyo sono molto diversi dalle «misure draconiane» decise dal presidente cinese Xi Jinping il 23 gennaio scorso – la messa in lockdown di un’area di oltre sessantacinque milioni di persone – e dal governo di Roma per il nord Italia.
Soltanto dopo le pressioni dell’opposizione, che accusavano il governo giapponese di non fare abbastanza per proteggere i cittadini dall’epidemia, in un discorso molto commentato Shinzo Abe ha chiesto agli organizzatori di annullare o posticipare i grandi eventi e alle scuole su tutto il territorio nazionale di rimandare la riapertura dopo le vacanze invernali. Non era mai successo nella storia moderna giapponese che il governo procedesse su questa linea, ma non è stata decisa nessuna ordinanza: tecnicamente, senza lo status d’emergenza, che il governo non ha voluto dichiarare, si tratta solo di una raccomandazione.
E infatti alcune scuole restano aperte, e restano aperti soprattutto i day care center, aperti per aiutare i genitori che devono comunque lavorare. Hideki Noda, direttore del Tokyo Metropolitan Theatre, ha scritto in un comunicato di voler continuare con gli spettacoli «perché il teatro, a differenza degli eventi sportivi, non ha ragione di esistere senza gli spettatori». Assicurando tutte le norme di sicurezza e contenimento del contagio, il direttore ha scritto che «si potrebbe creare un pericoloso precedente». Per il Giappone è un momento cruciale dal punto di vista economico, e una chiusura delle attività, sul modello delle «zone rosse» anche italiane, rischia di peggiorare la situazione.
Ma non è soltanto una questione economica. Al pericoloso precedente hanno pensato tutti, in Corea del sud, quando dopo l’approvazione delle leggi straordinarie il governo di Seul ha spiegato che il Paese non sarebbe andato incontro ad alcun «lockdown». Per i sudcoreani è un ricordo molto recente quello di un governo che limita le libertà personali dei cittadini – l’ex presidente Park Chung-hee, assassinato nel 1979, portò il Paese allo sviluppo economico usando il pugno di ferro. La Corea del sud è il paese con la società civile più attiva d’Asia, si scende in piazza e si protesta molto di frequente, tre anni fa oceaniche manifestazioni pacifiche hanno portato all’impeachment dell’allora presidente Park Geun-hye. Insomma: la democrazia in Corea del sud è ancora un feticcio intoccabile, anche di fronte a una crisi sanitaria globale.
Per questo il governo ha ripetuto più volte che il modello cinese non sarebbe stato preso in considerazione. Gli esercizi commerciali restano aperti, così come i teatri, i cinema, i ristoranti. Ci sono soltanto molti più controlli: due volte al giorno vengono disinfettati gli spazi pubblici praticamente ovunque, e i test sulla temperatura vengono effettuati a caso, anche per strada, con dei posti di blocco con auto medica. Chi viene trovato con la temperatura corporea oltre i 37,3 gradi centigradi viene sottoposto al test per il nuovo coronavirus, e mentre aspetta i risultati deve stare in isolamento. In caso di violazione dell’isolamento cautelativo, si rischia una multa salata. Se invece il test è positivo l’isolamento è sempre a casa propria – e non di gruppo, in strutture dedicate – e se si violano le disposizioni si può rischiare anche il carcere. Ma non c’è nessun soldato fuori dalla porta a controllare la quarantena.
Il modello di «contenimento democratico», come lo hanno definito alcuni media americani, non sappiamo se riuscirà, o se sarà sufficientemente efficace. Di sicuro, anche in Europa, è quello più adottato.
L’unica eccezione sembra essere quella italiana, che non appena ha scoperto il contagio nelle regioni del nord – tra i più estesi nel mondo – ha provveduto a votare, anche in Parlamento, un decreto restrittivo delle libertà personali dei cittadini. Il governo obbliga, tra le altre cose, undici comuni alla quarantena: vietati gli spostamenti, vietate le manifestazioni, chiusura delle attività commerciali fino al 15 marzo. Misure più leggere per le intere regioni Emilia Romagna, Lombardia e Veneto. 
Nel nostro Paese, i grandi eventi sono stati posticipati, ma finora non è stata intrapresa alcuna misura estrema come la chiusura dei confini o delle scuole – il Consiglio federale potrebbe comunque farlo, in caso di emergenza, avocando la legge sulle epidemia del 2010 che serve proprio a questo. 
Anche la Germania ha deciso di intensificare i controlli alle frontiere e di annullare la fiera del turismo di Berlino, ma nessuna città in quarantena. È uno scontro tra sistemi, un tema importante su cui vale la pena riflettere, in un periodo di rinascita dei nazionalismi e di modelli democratici a rischio. E con il rischio di pandemie sempre più frequenti.