Una nuova pubblicazione firmata da Michele Russo omaggia il grande musicista
Ritorno al compositore romeno George Enescu (1881-1955) in occasione della pubblicazione in traduzione italiana dei suoi Ricordi (LIM, 2021, pp. 107, €18), curati da un giovane studioso, Michele Russo, che promette futura attenzione a questo grande umanista della musica, piuttosto trascurato al di fuori del suo paese natale.
Già Yehudi Menuhin, suo ammiratore e discepolo, sosteneva fosse il più grande musicista che aveva conosciuto insieme a Béla Bartòk. «In qualunque campo della musica fu profondamente ispirato, ma non è stato ancora interamente scoperto».
Una crescente futura attenzione alla sua musica può trarre slancio dalla lettura delle sue brevi memorie, raccolte nel 1951 da Bernard Gavoty, temuto critico musicale del «Figaro» sotto lo pseudonimo di Clarendon, organista titolare di Saint-Louis des Invalides a Parigi, conferenziere ricercato e divo delle interviste radio-televisive delle star. Il sintetico profilo di Enescu, in forma di autoritratto, presenta prima di tutto un uomo magnetico di umiltà esemplare nei frequenti alti e bassi della vita, sia negli anni di gloria che in quelli della povertà e dell’esilio in Francia. Divisa modesta nonostante un gran talento molto precoce: a 17 anni compose la sua Seconda Sonata per violino e pianoforte in sole due settimane. Una Sonata presentata a Lugano nella stagione autunnale di Lugano Musica da Julia Fischer, dove la tradizione popolare romena si innesta a quella occidentale, attraverso l’influsso combinato di Brahms e del suo maestro, Gabriel Fauré. Dopo averla scritta, il giovane Enescu fu ricevuto a Berlino nientemeno che dal leggendario violinista Josef Joachim, amico e consigliere di Brahms, il quale gli fece un dono-consacrazione: l’autografo delle sue cadenze per il Concerto per violino di Beethoven.
Compositore precoce e talento multiforme, Enescu fu celebrato violinista, docente, pianista, direttore d’orchestra e instancabile animatore musicale. Per avvicinare la sua musica si può cominciare dalla sua più affascinante opera sinfonica, la Terza Suite «paesana», scritta alle soglie della Seconda guerra mondiale, come rifugio dalla barbarie. È una sorta di ritorno alla terra madre romena e ai ricordi infantili in cinque parti (Rinnovo primaverile. Bimbi en plein air. Vecchia casa d’infanzia, al tramonto – Pastore – Uccelli migratori e corvi – Campane vespertine. Fiume sotto la luna. Danze rustiche). Potrebbe sembrare formalmente un tardo poema sinfonico se non fosse che l’autore ha il potere di sublimare i ricordi atavici con la freschezza della sua orchestra moderna e la maestria di un’orchestrazione sempre originale che conferisce l’alone magico del profondo scandaglio introspettivo agli spunti autobiografici.
In ogni parola di Enescu traspare quell’incandescenza mistica, ammirata da Menuhin, con la quale si poneva davanti a tutta la musica, soprattutto nell’attività prediletta, la composizione. Una passione divorante che rasentava la regola di vita monastica. Non a caso Enescu cita una bellissima frase di Mendel, il libraio di Stefan Zweig: «tutte le nostre creazioni più valide sono frutto di una concentrazione e di una mania sublime, prossima alla follia». La sua vita e/o opera si riassume nel lavoro maggiore, Oedipe (1931-6). «Ho sempre pensato che, riuscita o mancata, ogni esistenza comporta la sua avventura, il suo dramma segreto. La mia vitalità, il mio dramma e la mia avventura sono contenuti in tre sillabe rese celebri da Sofocle: E-di-po».
Opera che non ha simili, arcaica nel tema e moderna nel linguaggio (utilizza tutte «le conquiste della musica contemporanea, il mezzo-cantato, il mezzo-recitato, il quarto di tono per meravigliosi effetti speciali»); la si ascolta quasi con gli occhi tanto lo scavo nell’espressione della parola giunge a cogliere l’essenza dell’ambivalenza tragica del Destino. Opera miracolosamente spogliata di pregiudizi e influssi, senza predecessori e senza eredi.