Minsk-Mosca – Aleksandr Lukashenko ha accusato il Cremlino di aver voluto organizzare una rivolta contro di lui
«Stanno preparando un massacro». Alla vigilia delle seste elezioni presidenziali che lo vedevano protagonista dal 1994, Aleksandr Lukashenko ha operato una rottura clamorosa: da Paese (quasi) disposto a tornare tra le braccia della Russia, la Bielorussia è stata trasformata da lui in una vittima dell’imperialismo di Mosca. Una settimana prima del voto, il KGB (che in Bielorussia ha conservato il nome, oltre alle funzioni) ha arrestato 33 russi «in mimetica e dal portamento marziale», che ha accusato di essere mercenari del famigerato «gruppo Wagner», la squadra di contractor che svolgono il lavoro sporco per i militari russi in Siria, Libia e altrove. Al parlamento un presidente visibilmente provato anche fisicamente, al punto da far circolare voci su un suo improvviso peggioramento di salute, ha raccontato che un secondo gruppo di mercenari è stato arrestato nel Sud della Bielorussia, e ha lanciato accuse pesanti di ingerenza verso Mosca.
Un plot da spy story che all’inizio era stato preso con scetticismo dagli osservatori, anche perché l’autocrate bielorusso non ha mai mostrato problemi a manipolare i fatti: soltanto pochi giorni prima aveva annunciato di aver preso il coronavirus ed esserselo sopportato «in piedi» da asintomatico, mandando un brivido lungo la schiena di Vladimir Putin, che l’aveva abbracciato appena una settimana prima. Ma nei giorni successivi la storia dei «turisti russi in mimetica» ha assunto toni inquietanti: Mosca prima non ha reagito, poi ha smentito, ma con toni stranamente pacati, molto più miti di quelli che usa di solito verso qualunque critica anche molto innocente alla Russia.
Secondo la versione ufficiale russa, i militari erano diretti nel Sudan, o forse in Turchia, dove avrebbero dovuto svolgere mansioni di sicurezza in un impianto non meglio precisato. I «Wagner», interrogati, hanno sostenuto di aver voluto andare a Instanbul per ammirare «la cattedrale di Aghia Sofia», forse ignari che Erdogan l’avesse appena trasformata in moschea. I canali Telegram che trasmettono inside del Cremlino sostengono che i mercenari fossero diretti in Libia, transitando da Minsk perché lo spazio aereo civile di Mosca è chiuso per la pandemia, e il Ministero della Difesa russo non voleva inviare per soli trenta uomini un aereo militare. Secondo Lukashenko, invece, i russi erano arrivati in Bielorussia per «aspettare gli eventi», perché «si sta preparando un massacro».
Una teoria meno assurda di quanto sembra. Nei sondaggi non ufficiali (quelli ufficiali non esistono) Lukashenko si guadagna appena il 3%, pagando 26 anni di povertà e repressione, e ora anche il negazionismo del Covid-19 (in presenza del presidente è vietato indossare la mascherina). Come sua abitudine, ha arrestato o minacciato tutti i suoi oppositori, ma si è visto sfidare da una triade insolita di donne, le mogli dei due candidati eliminati, Svetlana Tikhanovskaya e Veronica Tsepkkalo, e Maria Kolesnikova, la capa della campagna elettorale del terzo oppositore arrestato, Viktor Babariko. Il trio è stato bollato da Lukashenko come delle «poverette» in un Paese dove «la politica è roba da maschi», ma la frontrunner Tikhanovskaya, una mamma che non lavora di 37 anni, moglie-coraggio di un blogger finito in carcere, sta raccogliendo ai comizi decine di migliaia di persone, fenomeno mai visto nella mite Bielorussia, e dalle stime non ufficiali potrebbe spuntarla al primo turno.
Quando le autorità le negano le piazze organizza comizi nella foresta, e migliaia di giovani accorrono ad ascoltarla anche senza vederla in mezzo agli alberi. Sul palco sfoggia braccialettini di fili intrecciati e mostra il pugno chiuso, con Kolesnikova che invece forma con le dita il segno del cuore e Tsepkalo che alza le dita a V, vittoria, e pace. Un linguaggio in codice che non c’entra nulla con il machismo militarista dell’autocrate, che gioca a hockey sul ghiaccio con Putin, si veste di improbabili e sontuose uniformi militari e si porta dietro un figlio adolescente di cui si ignora la madre. Tikhanovskaya e le sue colleghe rappresentano quella nuova generazione postsovietica che non si accontenta più di una stabilità nella miseria che ricorda tanto gli ultimi anni dell’Unione Sovietica.
Difficile credere che Lukashenko le conceda la vittoria: nel suo ultimo discorso al parlamento ha detto che non lascerà mai il Paese in altre mani, perché «l’amata non si abbandona», e ha minacciato i «traditori». Un risultato elettorale palesemente falsificato porterà la gente in piazza, in una riedizione del Maidan che nel 2014 ha rivoluzionato l’Ucraina chiedendo e ottenendo la svolta del Paese verso l’Ue. Il rischio che un Maidan si trasformi in una Tienanmen è molto elevato, anche se da molte testimonianze indirette pare che almeno parte dei poliziotti e militari si rifiuterebbe di sparare contro il popolo per difendere «l’ultimo dittatore d’Europa», come venne chiamato da Condoleezza Rice. Per Mosca perdere il Paese che lo stesso Lukashenko ha definito «l’ultimo alleato rimasto alla Russia» sarebbe fatale, e che possa aver inviato uomini fidati ad impedire il crollo del regime pare perfettamente plausibile.
Il problema è che in questa ipotesi – come in quella che i «Wagner» fossero a Minsk in transito verso altre destinazioni – Lukashenko non poteva non sapere della loro presenza, ed averla autorizzata. L’arresto dei soldati di Mosca in questa ottica non può non venire letto da Putin come un tradimento. Che il leader bielorusso abbia deciso di presentarsi come il candidato anti-russo dà la misura delle sue difficoltà, ma paradossalmente finisce per aumentarle. Il Cremlino si era già risentito per il rifiuto di Lukashenko a una unificazione tra i due Paesi, che avrebbe ridato il fiato alla fama di Putin come restauratore dell’impero, e per i continui litigi sul prezzo del petrolio e del gas russo.
Ma finora aveva considerato la Bielorussia incapace di allontanarsi troppo, e i commentatori vicini al Cremlino stanno già accusando Lukashenko di aver tradito i russi a favore dell’Occidente. Che il leader bielorusso avesse deciso una svolta europeista appare poco probabile, sia perché sono vent’anni che l’Ue non riconosce la legittimità delle sue elezioni, sia perché in questo momento è troppo presa da problemi interni per osare una politica di espansione a Est. Ma intanto ha rotto con Mosca, mostrando anche di non considerare più Putin – alle prese anche lui con la pandemia, le proteste in piazza e il crollo dei consensi – come una scommessa a lungo termine. E il fatto che Minsk abbia passato le carte dei mercenari arrestati all’arcinemico russo, l’Ucraina, che vuole vedere se qualcuno di loro avesse partecipato alla guerra nel Donbass, non può non venire visto dal Cremlino come alto tradimento.
Resta da vedere il prezzo che gli farà pagare Putin. Lukashenko aveva già cominciato a prendere le distanze da Mosca dopo l’annessione della Crimea, autorizzando perfino la riapparizione di un discorso etnico bielorusso fino a quel momento bandito in un Paese che perfino come lingua ufficiale usava quella dei vicini. La tradizione della politica di Mosca esige di appoggiare sempre l’autocrate contro il popolo, anche perché il Cremlino non può non temere lo stesso scenario per Putin. Ma alla vigilia delle elezioni l’ultranazionalista Vladimir Zhirinovsky, che spesso esprime in provocazioni da giullare quello che Putin pensa, ha consigliato a Lukashenko di non opporre resistenza e scegliere la fuga.