Abbiamo buone ragioni per stare male

by Claudia

Pubblicazioni – Le ricerche di Randolph M. Nesse che applica la psichiatria evoluzionista per spiegare l’azione ansiogena dei social media

Compito primario di Facebook, Google, Pinterest, Instagram e Twitter è quello di manipolarci a livello inconscio senza destare il minimo sospetto e di invogliarci a rimanere connessi attraverso algoritmi sempre più perfezionati. Per soddisfare questi due obbiettivi occorre aver accesso a due cose: una buona conoscenza di come funziona la nostra mente e un’enorme massa di dati. Gli sviluppatori che, in questi anni, hanno potuto disporre delle due cose hanno però aperto un vaso, dal quale è uscito un genio che non risponde più ai comandi di nessuno.
Proprio perché le tecnologie della comunicazione hanno rapidamente cambiato le nostre vite, facendo toccar con mano quanto vera fosse l’intuizione di chi, già a metà degli anni Novanta, diceva che esse non sono uno strumento di cui noi facciamo uso bensì una sfera d’esperienza nello stesso tempo sensoriale e cognitiva amalgamata a quella del mondo tangibile in cui si muovono i nostri corpi, è utile prestare attenzione a quelle caratteristiche della nostra mente che ci distinguono in quanto specie e che, nello stesso tempo, ci rendono esposti agli effetti di seduzione dei social media. Caratteristiche che l’evoluzione ha selezionato perché dimostratesi efficienti per la diffusione della nostra specie ma che, in un mondo radicalmente diverso rispetto a quello nel quale quei tratti furono selezionati, compromettono oggi la nostra salute mentale.
Tra quanti stanno studiando il funzionamento della mente dal punto di vista evoluzionista è Randolph M. Nesse, psichiatra, fondatore della medicina evoluzionistica assieme con il biologo George C. Williams. Buone ragioni per stare male (Bollati Boringhieri) è il libro che Nesse ha pubblicato per illustrare le applicazioni della psichiatria evoluzionista. Gli argomenti principali sono l’ansia, l’umore basso e la depressione – spesso invalidanti stati della mente che tuttavia originano da meccanismi selezionati dall’evoluzione perché utili in contesti esistenziali che, nel frattempo, sono scomparsi; per poi arrivare ad argomenti come, per esempio, le molte forme di dipendenza che si avvantaggiano dei meccanismi di appagamento dopaminergico del nostro cervello per entrare stabilmente nelle nostre abitudini quotidiane.
Sebbene l’uso dei social media sia solo uno degli ambiti presi in esame da Nesse, l’attenzione posta ad alcuni disturbi mentali scaturiti da tratti comportamentali che ci hanno favorito in passato in quanto specie ma che ora si manifestano essere «maladattamenti», mette in luce non solo le nuove fragilità alle quali siamo esposti ma approfondisce la conoscenza del modo in cui le tecnologie della comunicazione e social media in particolare si avvantaggiano delle caratteristiche della nostra mente per dar luogo sia a specifici stati emotivi, sia a forme di dipendenza basate sul sistema di ricompensa studiato dalle neuroscienze.
Per esempio, «la selezione naturale – scrive Randolph M. Nesse – ha fatto in modo che l’opinione che gli altri hanno delle nostre risorse, delle nostre capacità e del nostro carattere siano una cosa a cui teniamo enormemente. L’essenza dell’autostima sta tutta qui». Se un tratto come la valutazione della nostra reputazione sociale è stato selezionato è perché esso è stato funzionale alla stabilità dei piccoli gruppi sociali ai quali abbiamo appartenuto per la maggior parte della nostra esistenza in quanto specie. Sebbene l’ansia sociale ne sia la conseguenza inevitabile, restando la nostra esperienza dentro i confini di quelle stesse piccole comunità, essa funziona un po’ come un rivelatore di fumo che ci dice di prestare attenzione alle circostanze. Se, invece, la comunità nella quale siamo immersi ha dimensioni enormi (attualmente gli utenti di Facebook sono 1,6 miliardi) l’ansia sociale può prendere il sopravvento, fino a costringerci a verificare in ogni momento sul nostro smartphone se l’ultimo nostro post o l’ultima nostra fotografia siano stati graditi oppure no. I social media, quindi, reiterano lo stimolo a verificare lo stato della nostra reputazione sociale e, nello stesso tempo, ci spingono ad esporci per chiedere sempre nuove conferme sociali. Ciò che prima aveva un’occorrenza occasionale con conseguenze positive o negative circoscritte nel tempo, oggi è diventata una pratica ininterrotta, con l’effetto che l’ansia sociale diventa invalidante.
Se per un verso, con Buone ragioni per stare male, Nesse ha prolungato nell’ambito psichiatrico riflessioni avviate in Perché ci ammaliamo, c’è un tema del tutto nuovo della psichiatria evoluzionistica denominato «inconscio adattativo» che l’autore ha approfondito. Perché non riusciamo ad accedere alle nostre motivazioni e alle nostre emozioni? – si chiede Nesse. Secondo il ricercatore questa caratteristica della mente è stata selezionata perché latrice di alcuni vantaggi. Per esempio, «la rimozione minimizza la perturbazione cognitiva», in questo modo ci permette di figgere più saldamente l’attenzione senza il disturbo dell’intromissione di pensieri svianti. Inoltre, egli scrive, «ho il sospetto che una funzione importante della rimozione consista nell’escludere alcuni desideri dalla coscienza». Mentre, dunque, da Socrate in poi abbiamo coltivato la convinzione che conoscere sé stessi è buona cosa, Nesse osserva che la selezione ha modellato la nostra mente per avere un accesso limitato a noi stessi e in tal modo darci maggior equilibrio.
Se la teoria dell’«inconscio adattativo» dovesse essere confermata, lo scenario recentemente manifestatosi della nostra ininterrotta interazione con una rete che non solo tiene traccia di tutto quanto facciamo e diciamo, ma che – grazie ad algoritmi sempre più efficaci – è in grado di accedere ai nostri desideri inconsci meglio di noi stessi, si configurerebbe come uno scenario nient’affatto idoneo alla nostra mente, che sarebbe continuamente perturbata o dal ricordo di fatti che non potrebbero conoscere l’oblio dell’inconscio perché sempre conservati nell’indeterminata cloud, o dall’esposizione a desideri finora tenuti a bada sotto il livello della coscienza.
Abbiamo buone ragioni per star male perché l’evoluzione ci ha dato in eredità una mente che in un mondo industrializzato fa scattare il campanello d’allarme dell’ansia molto più frequentemente di quanto non accadeva nell’ambiente che abbiamo conosciuto nella nostra storia evolutiva, ma la sofferenza psichica è destinata a crescere tanto più, quanto più saremo immersi in un mondo informazionale sviluppatosi sfruttando le vulnerabilità della nostra mente.

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