Per un digitale sostenibile

by Claudia

Se permettete, comincerei con l’inventare una parola: «inform-etica». In realtà, Google ci dice che esiste già, è addirittura il nome di un’azienda, ma noi utilizzeremo il termine in un senso più circostanziato. La definizione che ne spiega il significato potrebbe essere la seguente: «disciplina che osserva l’informatica per individuarne aspetti legati a un suo uso sostenibile e ragionevole, e ciò sia in termini economici, di manifattura, e di usabilità pratica, sia in quelli che hanno a che fare con la psicologia dell’utente e i suoi rapporti con l’ambiente che lo circonda. Il fine di questa osservazione è la definizione di “buone pratiche”, che possano contribuire a rendere sostenibile, in senso ecologico e sociale, l’interazione tra l’uomo e i dispositivi elettronici».
L’intento di questa nuova rubrica vorrebbe dunque essere quello di promuovere una riflessione «inform-etica» su un uso attento delle tecnologie digitali. Il suo titolo prende spunto da quei materiali preziosi utilizzati per la produzione di componenti elettroniche, elementi relativamente rari in natura e per questo molto importanti, tanto più che la diffusione delle tecnologie digitali ne richiede un uso sempre maggiore, con un impatto ambientale (ma anche politico e sociale) non indifferente. Forse, ragionando sulla qualità del nostro fare, possiamo influire sulla quantità, evitando degli sprechi…
Riflettere sull’«inform-etica» ci sembra utile. Non fosse altro perché il mondo delle tecnologie digitali è spesso circondato da un’enfasi modernista a cui bisogna giocoforza adattarsi, aderire con entusiasmo, per non far brutte figure. Ora, la realtà delle cose sta mostrando, a una ventina d’anni dall’apparizione massiccia dei computer nella nostra vita, che oltre a risolvere indubbiamente una serie di problemi, la tecnologia ne ha creati alcuni altri. Vale la pena di tenerli d’occhio. Senza peccare di scetticismo di ritorno, senza rimpiangere i bei tempi andati, si tratta di osservare criticamente l’impatto di certe nuove abitudini che abbiamo contratto, e soprattutto di mantenere un allenamento mentale a mettere sui piatti della bilancia i pro e contro della nostra esposizione a un mondo indubbiamente affascinante, ma proprio per questo anche capace di farci perdere l’equilibrio.
Checché ne dica Mr. Facebook, nel «metaverso» viviamo ormai da tempo e vale la pena di guardare con attenzione gli aspetti utili e meno utili di questa inclinazione alla virtualità elettronica. Insomma, senza buonismo opportunista ma anche senza ostinata e cieca resistenza, cercheremo in queste colonne di proporre piste di esplorazione, spunti di riflessione per continuare a mantenere un atteggiamento aperto e curioso attorno al mondo informatico.
Il proposito è contrapporre all’intelligenza artificiale delle macchine un buonsenso artigianale dell’utente. (Questo testo è stato scritto sul blocco di appunti di uno smartphone: avete mai pensato che un telefono può essere usato anche per tenere un diario? Come quelli di una volta, da redigere in perfetta solitudine, prima di dormire, o al mattino presto, prima di alzarsi. Lo fareste? Visto con humour, è un modo di fare entrare un po’ di umanità tra circuiti integrati e righe di codice di programmazione).
Comunque, per iniziare la nostra esplorazione proviamo a riflettere partendo da questo suggerimento: ce lo propone C.G. Jung, ed è tratto da una sua conferenza degli anni 40: «Il nuovo è sempre problematico e va messo alla prova. Il nuovo infatti può anche essere un male. Per questo un vero progresso è possibile solo quando ci sia maturità di giudizio. Un giudizio ponderato però richiede un punto di vista saldo, che può basarsi soltanto su una profonda conoscenza di ciò che è stato. Chi, ignaro della continuità storica, perde il legame con il passato, rischia di soggiacere alle suggestioni e agli abbagli che tutte le novità creano. È la tragedia di ogni innovazione il fatto che con l’acqua sporca si getti via anche il bambino».

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