Le donne e il tabù dei soldi

by Claudia

Culturalmente si crede che sia disdicevole, per loro, parlare di denaro. Quelle che lo fanno vengono considerate troppo ambiziose, materiali e venali. Per l’economista Azzurra Rinaldi è ora di invertire la tendenza

È ancora convinzione comune che le donne non debbano parlare di soldi. Chi contravviene a questa credenza viene considerata troppo ambiziosa, materiale e venale. Azzurra Rinaldi, docente di Economia politica all’Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza, cerca di scardinare questo tabù con un libro (dal titolo provocatorio): Le signore non parlano di soldi (Fabbri editore).
Azzurra Rinaldi, perché per le donne è disdicevole parlare di soldi?
Culturalmente veniamo abituate a mantenere una certa distanza dal denaro e dai numeri. Un paradosso, considerando che il sistema del lavoro è ormai, dappertutto, capitalistico ed è basato sull’accumulazione dei soldi. Le culture più polarizzate, in questo senso, sono quelle del Mediterraneo, dell’America Latina, del Sud-est asiatico e del Medio Oriente. In generale, comunque, anche nei Paesi più avanzati si preferisce non fare gestire il proprio denaro a una donna. Molte ricerche, a livello internazionale, dimostrano che esiste un bias (pregiudizio, ndr) culturale in tutto il mondo, dal Nord Europa al Sudamerica, che inizia nell’infanzia. Quando si chiede agli insegnanti chi vada meglio nelle materie scientifiche rispondono sempre «i maschi», nonostante le «femmine» siano, in media, più brave a scuola, anche in matematica e nelle scienze. Il meccanismo viene rafforzato in famiglia con la «paghetta», uno strumento importante per entrare in contatto con l’idea di indipendenza economica. Da un’indagine della fondazione Child Wise nel Regno Unito, è emerso che i bambini fino agli undici anni ricevono il 20% di soldi in più rispetto alle bambine e con più regolarità. Il divario si allarga al 30% dai dodici anni perché si ritiene che i ragazzini debbano avere abbastanza denaro da spendere, per offrire il gelato alla fidanzatina.
Le donne continuano a guadagnare meno degli uomini?
Sì, purtroppo. Per una distorsione del mercato, vengono pagate meno a parità di competenze. Inoltre, alle donne sono ancora affidate le mansioni di cura della casa e dei figli. Quindi, si ritrovano a lasciare il posto di lavoro per certi periodi, lavorano più spesso a metà tempo degli uomini e sono maggiormente propense allo smart working. Le aziende, dal canto loro, guardano con sospetto a chi è presente in maniera meno assidua. Nessun Paese al mondo ha superato il gender gap, la disparità di genere. Nonostante ci siano moltissime iniziative, avviate da organismi internazionali come la UN Women e lo European Institute for Gender Equality, e normative che vietino la disparità salariale, non siamo ancora riusciti a cambiare la situazione. Gli uomini continuano a prendere di più perché hanno benefit maggiori e perché il sistema li premia.
Come mai la maternità penalizza ancora le donne?
Soprattutto nei Paesi in cui non c’è una rete di servizi adeguati alla famiglia, ci si aspetta che siano le donne a prendersi cura dei figli. La pressione sociale è molto forte, quando si diventa madri. I racconti vanno tutti nella stessa direzione e insistono sul fatto che le mamme non ce la faranno mai a fare tutto. A meno di non essere molto motivate e avere una struttura di sostegno, tendono ad abbandonare il posto di lavoro. Diversi studi indicano che così si chiudono in una dimensione privata, diventando più fragili e vulnerabili, restando sprovviste di una rete di relazioni di riferimento. Gli effetti a medio e lungo periodo si vedono non soltanto nell’incapacità delle donne di avere redditi simili a quelli degli uomini, ma anche nelle pensioni. Nell’Unione europea, le anziane rischiano di più la povertà.
Che cos’è la violenza economica?
È una forma di controllo tra due adulti sulla possibilità di produrre e gestire il denaro. È trasversale a tutti i ceti sociali. Se ne parla in modo sistematico da pochissimo tempo, da quando è entrata nella Convenzione di Istanbul, il trattato internazionale creato per affrontare la violenza contro le donne e la violenza domestica. I segnali della violenza economica spesso passano ancora sottotraccia: ci sembrano normali perché li abbiamo visti agire dai nostri padri e nonni. Si va dal controllo delle spese alle verifiche degli scontrini. Nel caso in cui le donne siano disoccupate, si ritrovano a implorare il marito o il compagno per avere il denaro per fare la spesa.
Cosa si può fare per sconfiggerla?
Bisogna aumentare la consapevolezza. Per questo ho scritto questo libro divulgativo, nonostante io sia una docente universitaria. Per lo stesso motivo sono molto presente sui social network. Inoltre, è necessario educare alla sorellanza: noi donne dobbiamo essere alleate e non rivali. La società ci mette ancora l’una contro l’altra, viviamo con l’idea di dover competere per i maschi migliori e per questo motivo tendiamo a criticare le altre per l’aspetto fisico e per le loro scelte di vita. Per un cambiamento, occorre poi l’impegno degli uomini: vogliamo alleati che ci aiutino con un impegno concreto. Pensiamo soltanto al fatto che il 39% delle donne europee non riesce a lavorare perché impiega sette ore al giorno a prendersi cura dei figli, della casa, del marito, dei genitori e degli animali. Infine, le istituzioni devono impegnarsi per favorire i processi di parità, anche potenziando gli strumenti di welfare.
Lei scrive che per duecento anni l’economia è stata dominata da una Weltanschauung maschile, ovvero da una concezione del mondo testosteronica. La situazione sta cambiando?
No. Lo scorso marzo António Guterres, segretario generale dell’Onu, ha detto che ci vorranno 300 anni per raggiungere la parità di genere, mentre prima della pandemia si pensava che ne sarebbero «bastati» 132. A peggiorare la situazione sono stati diversi fattori, come la pandemia e la guerra in Ucraina. È tremendo che nelle crisi il prezzo più alto sia sempre pagato dalle fasce più fragili. Se esaminiamo la situazione nei Paesi virtuosi, come Islanda, Finlandia e Norvegia, osserviamo che i miglioramenti sono iniziati negli anni Settanta, quando le donne femministe hanno iniziato a occupare ruoli politici apicali. Dobbiamo ricordarci che non basta la presenza femminile in politica: servono donne che supportino le istanze di equità.

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