I due discorsi di Trump – Dopo quelli di Davos e sullo stato dell’Unione, «The Donald» piace a oltre il 50 per cento degli americani, risultando meno provocatorio e più disponibile a cercare compromessi con l’opposizione
Fra Davos e il discorso sullo Stato dell’Unione, Donald Trump ha infilato due settimane consecutive in cui l’America e il mondo hanno visto il suo volto più presidenziale, più rispettabile. Ci ha dato anche un’idea abbastanza chiara su che tipo di priorità intende inseguire in questo «corto» 2018. Corto perché già all’inizio di novembre si vota per le legislative di mid-term che possono mettere il presidente in minoranza in uno dei rami del Congresso. Ma in otto mesi lui può fare tanto; visto quel che è riuscito già a realizzare nei dodici precedenti.
Comincio dalla sua missione-lampo in Svizzera. Prendendo in contropiede le critiche sul suo protezionismo, ha invitato i capitalisti radunati al World Economic Forum di Davos a investire nella sua America che dopo l’ultima riforma fiscale si è trasformata in quasi-paradiso fiscale e della deregulation. All’Uomo di Davos, banchiere o top manager di multinazionali, privilegiato appartenente allo 0,01% della popolazione mondiale, il presidente americano ha portato una buona novella: possiamo fare affari insieme. «America is open for business», col doppio senso che evoca una terra accogliente per tutti i miliardari del pianeta, la nuova Bengodi degli affari, con meno tasse e meno regole, ivi compreso lo smantellamento dei vincoli ambientalisti. Abbondano i chief executive che annunciano nuovi investimenti negli Stati Uniti. Si distinguono le multinazionali tedesche, Siemens in testa, indifferenti alle scomuniche della Merkel verso il protezionismo trumpiano.
Ma lui non usa la parola protezionismo, il suo obiettivo è restituire al commercio internazionale «integrità, onestà». «Vogliamo mercati aperti su basi eque e reciproche». Non è un tema che ha scoperto lui, le regole della globalizzazione furono contestate fin dall’esordio della World Trade Organization (proteste di Seattle, 1999) per l’assenza di diritti sociali e di tutele ambientali. In seguito quelle regole sono diventate ancor più squilibrate perché concedevano agevolazioni alla Cina che oggi sono anacronistiche.
Un implicito spirito di rivincita faceva da retroscena all’apparizione nel club più esclusivo dei globalisti: da imprenditore Trump era troppo piccolo e troppo poco rispettabile per essere invitato a Davos. Quest’uomo ha passato una vita a covare risentimento contro i grandi capitalisti che lo snobbavano, per questo gli riesce la parte dell’outsider e sa immedesimarsi perfino nella rabbia operaia contro le élite.
Se nel gennaio 2017 il discorso in difesa della globalizzazione era stato affrontato da Xi Jinping, quest’anno a Davos è stata Angela Merkel a interpretare quel ruolo. La cancelliera ha ammonito il presidente americano a non ignorare «le lezioni della storia». La platea di Davos tifava per la voce della ragione, identificata con la Merkel.
Di quale lezione storica stiamo parlando? La Merkel parte dalla Grande Guerra del 1914-18 (siamo nel centenario della conclusione di quella carneficina) ma la lezione si estende agli eventi successivi. Le inique sanzioni della pace di Versailles che esasperarono il revanscismo tedesco. Il disordine economico e il caos politico della Repubblica di Weimar. Il crack del 1929 a Wall Street. La Grande Depressione. L’avanzata dei totalitarismi, neri o rossi. In quella tragedia ebbe una parte il protezionismo: molti paesi cercarono di scaricare i danni della crisi sui vicini, alzando barriere e dazi. Il commercio mondiale crollò, accentuando la disoccupazione e la miseria di massa. Keynes fu uno dei pochi a vedere con lucidità i danni di quelle politiche economiche. Il New Deal di Roosevelt fu una delle risposte ispirate da Keynes. In quel caso l’America rappresentava l’alternativa positiva ai dirigismi dittatoriali di Hitler, Mussolini, Stalin. Oggi s’invertono le parti?
Il grande assente, dai due discorsi di Trump e della Merkel a Davos, è stato il tema delle diseguaglianze. La cancelliera tedesca ha omesso un fenomeno chiave degli anni Venti cioè l’abnorme dilatazione delle diseguaglianze sociali, che torna a quei livelli proprio oggi. Per Trump il problema non esiste perché fa propria la Reaganomics: viva l’arricchimento degli straricchi, prima o poi le briciole del loro banchetto arriveranno anche agli altri (in effetti questo sta accadendo: i salari Usa tornano a salire dopo anni di ristagno, anche se il guadagno nelle buste paga è una frazione delle stock option dei manager o dei dividendi degli azionisti). Le oligarchie finanziarie di Davos in questo sono trumpiane-reaganiane anche quando non lo ammettono.
Trump era arrivato a Davos dopo aver introdotto dei superdazi contro i pannelli solari cinesi e gli elettrodomestici sudcoreani. La saggezza convenzionale – di cui la Merkel si fa interprete – dice che Trump provocherà le rappresaglie altrui, ciascuno chiudendosi in difesa del proprio mercato, e alla fine saremo tutti più poveri. Ma la credibilità della Merkel è limitata. Lei governa una nazione mercantilista, che accumula giganteschi attivi commerciali, con un effetto depressivo sui paesi vicini. Il comportamento tedesco, unito alla religione dell’austerity, contribuisce alla debolissima crescita in Italia, Francia, Spagna.
Il protezionismo di Trump – che ha dei precedenti, Reagan varò misure contro le auto giapponesi – viene da una nazione che è tra le più aperte alle importazioni dal resto del mondo, ed accumula disavanzi crescenti con Germania, Cina, Giappone, Messico. La Cina è la patria del protezionismo da decenni. Su molti prodotti occidentali applica superdazi che sono il quintuplo di quelli americani. Costringe le aziende straniere a investire sul suo territorio imponendo dei soci locali che rubano segreti industriali e tecnologici. Questa è la globalizzazione che piace a Xi Jinping. Sono regole asimmetriche, che ebbero una giustificazione quando alla fine del millennio venne negoziato l’ingresso di Pechino nell’organizzazione del commercio mondiale. Quella Cina poverissima aveva bisogno di agevolazioni per integrarsi. In vent’anni ha fatto progressi prodigiosi, alcuni settori della sua economia sono a livelli giapponesi. Le regole oggi sono superate e danneggiano tutto l’Occidente. Qualche volta può anche succedere che Trump dica una verità scomoda.
Se c’è un colpevole dietro l’ondata dei nazionalpopulismi, è l’Uomo di Davos. Oxfam ha denunciato che l’1% della popolazione mondiale l’anno scorso si è appropriato dell’82% dei frutti della crescita. Le oligarchie finanziarie, i chief executive, hanno fatto secessione dalle loro società nazionali, l’elusione fiscale ne è un segnale evidente.
Il «presidente che legge invece di twittare» piace agli americani. Tra quelli che hanno ascoltato in diretta il suo discorso sullo Stato dell’Unione la sera del 30 gennaio, i tre quarti lo hanno approvato. Il 54% gli attribuisce il merito della vigorosa crescita economica, in netta accelerazione negli ultimi 12 mesi. Trump risulta meno lacerante, meno provocatorio, quando accetta di auto-disciplinarsi e segue un discorso preparato dai suoi consiglieri. Va precisato, come fa la Cbs nel sondaggio citato sopra, che tra coloro che si sintonizzano sullo stato dell’Unione vi è sempre una maggioranza di sostenitori del presidente. Accadeva anche con Barack Obama e i predecessori. È un tratto ormai costante della democrazia americana, sempre più polarizzata e divisa per fazioni tribali: chi disapprova il presidente spesso evita perfino di ascoltarlo.
Trump ha lanciato due proposte concrete all’opposizione, su cui si apre la sua agenda di governo per il 2018. La prima è il maxi-piano di 1.500 miliardi di investimenti per ammodernare le infrastrutture. Non è un’idea di destra, anzi siamo sul terreno delle politiche keynesiane di spesa pubblica. Ce n’è un gran bisogno. L’America ha aeroporti da Terzo mondo, una vergogna ignorata a lungo da una classe dirigente provinciale che non sa fare confronti con Pechino o Dubai. Le ferrovie cascano a pezzi; l’alta velocità non esiste. Autostrade, ponti, metropolitane, quasi tutto è fatiscente. Il problema è trovare i soldi e qui Trump è stato vago perché i problemi li ha in casa propria. I repubblicani non gli consentirebbero un ulteriore aumento del deficit pubblico, già gonfiato dai generosi sgravi fiscali alle imprese. Trump ha evocato un mix di pubblico e privato, ma gli investitori privati non amano le infrastrutture perché non danno profitti a breve termine. Ha poi lanciato un appello «sospetto», a velocizzare le procedure: in molti casi questo significa aggirare gli studi d’impatto ambientale, un altro colpo nella direzione della deregulation contro l’ambiente. Su questo saranno i democratici a frenare.
Il terreno più denso di insidie è la riforma delle leggi sull’immigrazione. Trump ha proposto un compromesso sul quale sia i repubblicani che i democratici hanno qualcosa da perdere e qualcosa da guadagnare. Ha allargato la platea della sanatoria per gli immigrati clandestini arrivati in America da bambini, arrivando fino a 1,8 milioni (oltre il doppio dei dreamers contemplati da Obama quando aveva sospeso le espulsioni) offrendogli un percorso di 12 anni verso la cittadinanza. In cambio chiede ai democratici tre cose: il finanziamento del Muro col Messico; l’abolizione della lotteria che sorteggia le Green Card; la fine dei ricongiungimenti familiari allargati. Su questo ricomincerà subito una trattativa serrata. Incombe la scadenza dell’8 febbraio entro la quale si ripropone la necessità di finanziare il debito pubblico coi voti dell’opposizione.