Papà, lasciami giocare!

by Claudia

Il caffè delle mamme – Troppi genitori vogliono che i figli diventino campioni sportivi a scapito del divertimento

«Guarda la partita e lasciami giocare papà. Perché, io, non desidero nient’altro che giocare». Da metà marzo fuori dai campi di calcio del Ticino (da 300 partite ogni fine settimana) sarà appeso un cartello che si conclude con quest’invito. È la «Lettera di un figlio al padre» che la Federazione Ticinese Calcio (FTC) utilizza per sensibilizzare su un problema sempre più sentito: il tifo da contenere dei genitori. L’argomento a Il caffè delle mamme ci divide in due categorie: chi propende per il modello di Mike Agassi, il padre-orco che costringeva il figlio ad allenarsi con uno sparapalline da 2500 colpi al giorno; e chi si immedesima nel figlio che sarà diventato anche il numero 1 al mondo del tennis, ma ha avuto l’infanzia (e, forse, la vita) rovinata proprio da quel maledetto sparapalline. Sullo sfondo una domanda su tutte: ma è proprio necessario avere figli campioni?
Antonio Manicone, attuale tecnico in seconda della Nazionale Svizzera di calcio, una lunga esperienza da allenatore nelle squadre giovanili dell’Inter, sintetizza con una battuta: «Tra allenatori – racconta ad «Azione» – diciamo scherzando che la miglior squadra da allenare è una squadra di orfani». Parole che nella loro crudezza fotografano un fenomeno sociale: troppi genitori scaricano sui figli le proprie ambizioni. Così, come mette bene in evidenza la «Lettera di un figlio al padre», quando il bambino o il ragazzino torna a casa deluso dall’allenamento («Papà, oggi alla partita non mi sono divertito affatto. Se questo vuol dire andare a scuola calcio, meglio continuare a suonare il pianoforte»), mamme e papà leggono la sua amarezza con gli occhi da adulto: «Lo capisco figlio, avete perso e non è affatto bello»; «È per via dell’arbitraggio? Purtroppo la colpa è di chi ce li manda questi arbitri incompetenti»; «Poi ci si mette pure il mister che ti fa giocare da terzino, possibile che non capisce che tu devi fare l’attaccante?». In realtà il motivo della delusione è un altro: «È il tuo atteggiamento papà. Le tue urla, i tuoi consigli. Quando hai detto quella parolaccia all’arbitro mi sono davvero vergognato. Poi ti sei messo a litigare con un genitore dell’altra squadra, per non parlare di quando hai iniziato ad urlare al mister di farmi giocare in attacco».
Per essere felici non c’è bisogno di vincere, ma di correre e divertirsi. Possibile non rendersene conto? Lo scorso 8 gennaio Andrea Schenal, maestro di sci di Feltre (Veneto) che da trent’anni opera come allenatore della Federazione italiana sport invernali, posta su Facebook una lettera che diventa virale: «Per tuo figlio/a lo sport non deve diventare un lavoro, ma deve rimanere un gioco; perdere o vincere una gara non influirà su come la terra gira attorno al sole». Schenal va dritto al punto: «Si è tentati di cercare nei figli quello che non si è stati; molto spesso però i genitori si trasformano da primi tifosi a esseri urlanti e nervosi che se la prendono con tutti, in primis con gli allenatori e poi con i figli stessi. È normale sentire l’adrenalina della vittoria e la tristezza per una sconfitta, ma un genitore deve rimanere sempre e solo un genitore, un tifoso e null’altro».
Nel calcio l’affronto peggiore è senza dubbio il figlio lasciato in panchina. Una decisione che viene presa spesso dall’allenatore, sia davanti a un baby campione sia davanti a un brocco: il principio è che tutti devono potere scendere in campo, anche i più scarsi, perché tutti devono avere la possibilità di divertirsi e imparare. Perché ce lo dimentichiamo? Per una mamma e un papà è anche difficile accettare che il proprio ragazzino non sia un talento del pallone (o di qualsiasi altro sport): come se i Maradona o i Messi nascessero spesso! Fulvio Biancardi presidente della FTC riflette con «Azione»: «Troppi genitori vogliono i figli fenomeni in nome di una propria rivincita sociale». Il problema è che così viene fatto passare un messaggio sbagliato ai più giovani: la prevaricazione sugli altri. Non solo: lo sport, che sia il calcio o qualsiasi altro, viene svuotato dei suoi valori più importanti. «I genitori che trasferiscono sui figli le loro aspirazioni inconsapevolmente mettono sotto pressione i ragazzini – sottolinea Manicone –. E impediscono loro di capire il vero significato dello sport, che va dall’aspetto ludico, al gioco di squadra fino al rispetto delle regole. È fondamentale, invece, lasciare ai bambini la libertà di esprimersi».
Davanti a comportamenti deplorevoli (come gli insulti e minacce a giovani arbitri), lo scorso 19 maggio la Federazione Ticinese Calcio ha preso la decisione forte di sospendere per una giornata tutti i campionati del settore allievi (dagli Allievi A fino ai D9). E adesso la FTC insieme al Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport, si sta muovendo per promuovere una visione sana e educativa dello sport. È stato creato il gruppo di lavoro Fairness. Ribadisce Biancardi: «È importante che ogni giocatore si diverta praticando il gioco del calcio, confrontandosi con amici che condividono la stessa passione. Con gli allenamenti e le competizioni vengono vissute esperienze molto importanti per lo sviluppo della sua personalità; imparerà a convivere con vittorie e sconfitte. La medesima attitudine e mentalità è richiesta ai genitori anche fuori dal campo». L’appello della «Lettera di un figlio al padre» è: «Papà, la prossima volta, per favore, divertiti insieme a me». Il monito di Schenal: «Genitori fate solo i genitori, basta e avanza. Se vostro figlio vede che siete rilassati e vi state divertendo sicuramente avrà risultati migliori». E, allora, fuori dal campo: «Solo applausi».