L’uomo dei dadi

by Claudia

Collezionismo - Le facce di un dado da gioco possono essere molte più di quelle che immaginiamo

«Conduci una vita insignificante, che non ti soddisfa, in stato di “libertà congelata”? C’è una via per uscirne e questa via è il dado: sottomettiti a lui e la tua vita cambierà». Questa la filosofia di vita che l’autore di culto degli anni Settanta, Luke Rhinehart, esprime nel suo romanzo più noto, L’uomo dei dadi, nel quale narra le vicende di un annoiato psichiatra di successo che affida la propria vita al caso, semplicemente lanciando un dado da gioco. Al relativo risultato è affidato il compito di indicargli le decisioni da prendere e la piega che la sua vita avrebbe seguito.
È un libro di culto di quegli anni, tanto da essere definito dallo scrittore Emmanuel Carrère «un manuale di sovversione che chiunque sogna di mettere in atto nella vita reale». Di quel «chiunque» non siamo così certi, dopo aver incontrato Sandro (nome noto alla redazione) e la sua ricchissima, inimmaginabile e originalissima collezione di dadi da gioco: «Non ho mai affidato ai dadi una mia decisione perché li ho sempre collezionati per il loro aspetto fisico o estetico, non certo perché potessero decidere qualcosa lanciandoli in aria».
Una collezione nata più per la forma che per il fato di cui parla Rhinehart nel suo libro, ci racconta Sandro mostrandone uno di quelli classici come la maggior parte di noi conosce: «La forma di questo cubo, la casualità di quando lo lanci e decide lui quale numero o simbolo esce, e poi la varietà, perché ve ne sono di forme e simboli così differenti fra loro che nemmeno uno se lo immagina».
Racconta di averli sempre tenuti come «oggetti di decoro» e di averli acquistati un po’ in ogni dove: «Quando li vedevo, dicevo “ma che belli questi”, e bastava a stimolarmi nell’acquisto». Man mano, sono sempre stati riposti in bella vista sugli scaffali della libreria, sia quelli comperati personalmente sia quelli ricevuti in dono, fino a quando: «Forse erano talmente pieni di polvere, o forse quando sono arrivati i miei figli, o quando ho smesso di essere un collezionista attivo (non so più bene), li ho messi tutti in una scatola che oggi sono andato a riprendere in cantina».
Prima del nostro incontro, gli abbiamo chiesto di non toccare quella scatola perché ci saremmo andati insieme, in cantina, a recuperarla. Così abbiamo fatto, e ora lo vediamo scivolare sempre più in un mare di ricordi ed entusiasmo a ogni dado che tira fuori mentre ce ne racconta la storia. Dice di non ricordarseli tutti, e per questo li ha etichettati con data, provenienza, nome di chi gliene ha fatto dono. Ma questa sua affermazione non corrisponde proprio al vero perché gli si illuminano gli occhi a ogni pescaggio nella scatola, e racconta un aneddoto di quel dado o quell’altro, per forma, per simbologia rappresentata, per l’uso che se ne può fare e per provenienza: «Questi neri sono di madreperla o di osso e me li ha regalati mia sorella a Natale del ’98. Questi bianchi li ho visti in una vetrina di un negozio di vestiti dove sono entrato chiedendo se per favore li potevo comperare: immaginate la sorpresa quando dopo un certo tempo mi hanno telefonato che avevano smontato la vetrina e avrei potuto andare a prenderli… e poi ho una cravatta con i dadi, e questi sono dei ferma-polsini usati negli anni Venti dai croupier del Casinò di Montecarlo. Questi di osso provengono dalla Turchia».
Dadi porta-penne, ferma-libri, porta-inchiostro, dadi fatti di gomma per cancellare, macinacaffè, contenitore per denti di latte: ce li mostra man mano che attinge alla scatola: «Questi di inizio secolo mi sono stati regalati nel ’94 e sono di vetro colorato…». Contrariamente al nostro immaginario comune, vediamo dadi che tali non sembrano: «Questi neri hanno sei/otto facce, quest’altro è un dado “centofacce”». Ci mostra una sfera che ci chiediamo come possa fungere da dado. Ma le sorprese su forme e simbologia dei dadi da gioco si susseguono con quelli fatti di sale («sono fragili perché si sgretolano e sono contenuti in questo bicchierino pure di sale»), a forma di uovo, con lettere invece dei numeri, con facce a prisma, con Sì o No a decretare una precisa risposta alla domanda di chi li lancia: «Questo è una trottola, l’altro ha i numeri messi a caso, poi abbiamo i dadi ghiacciolo da mettere nei bicchieri da cocktail, uno d’argento che mi hanno portato degli amici dal Messico e ha l’astuccio di stoffa tipicamente messicana…».
Siamo dinanzi a una varietà di differenti e originali dadi da gioco con una concezione che si allontana dalla consuetudine, a cominciare da quello come un parallelepipedo di legno che non cadrà mai in piedi e gliene chiediamo la provenienza: «Ero in Nepal, nel ’93, a Katmandu, e mi sono avvicinato a degli uomini che giocavano proprio con questo dado sul bordo della strada. Volevo comprarlo e ho dovuto superare il loro diniego (“Stiamo giocando, torna quando abbiamo finito e vedremo”). Dopo una discussione in un nepalese poco scontato, sono riuscito a farmelo vendere a partita finita e chissà quanto lo avrò strapagato».
Sandro ci confida che quella scatola recuperata dalla cantina lo ha riportato indietro: «Quando l’ho aperta e ci ho messo dentro le mani mi si è aperto un mondo di ricordi… mi fa piacere tirarli fuori adesso, mi piacciono ancora, mi accorgo che mi piacciono ancora…». Ribadisce di aver smesso di raccogliere dadi da gioco solo perché poi si ricoprono di polvere, e in fondo non affiderebbe comunque mai a loro le proprie decisioni. Però: «Se mi trovassi in un mercatino e vedessi un paio di bei dadi da gioco, me li comprerei ancora! Anche se poi li riporrei ancora in questa scatola». A questo punto: «Les jeux sont faits». Oppure, meglio ancora: «Il dado è tratto».