Il trionfo della Trumponomics

by Claudia

WEF – Mentre in patria Trump deve fare i conti con il processo di impeachment apertosi al Senato, a Davos il presidente Usa ha celebrato il boom economico del suo Paese definendo gli accordi con Cina, Messico e Canada «i migliori di sempre»

L’attenzione allo scontro sul cambiamento climatico fra Donald Trump e Greta Thunberg ha fatto passare in secondo piano il cuore del discorso pronunciato dal presidente americano al World Economic Forum di Davos. Eppure non era banale: ha celebrato il trionfo della Trumponomics. Questo termine non lo sta usando nessuno, mentre in America tutti ricordano la Reaganomics, dal nome del presidente Ronald Reagan (1980-88) che fu protagonista della rivoluzione neoliberista, vinse la guerra fredda, e governò durante un periodo di forte crescita. Trump a Davos ha rivendicato il merito del «suo» boom. Ha parlato di «eccezionale prosperità americana», di Borsa alle stelle, di una «rinascita della classe operaia» sia in termini di posti di lavoro che di salari. «L’America sta fiorendo – ha detto il presidente – e sta vincendo come non era mai accaduto».
Il Gotha della finanza e i chief executive riuniti sulle montagne dei Grigioni non simpatizzano per lui, anzi lo considerano responsabile di aver sfasciato la globalizzazione e preferirono applaudire il discorso di Xi Jinping tenuto a Davos due anni prima. E tuttavia dovrebbero essergli grati: poiché l’élite dello 0,1% possiede una quota sproporzionata della ricchezza azionaria, anche loro hanno tratto vantaggio dal boom trumpiano che ha proiettato gli indici di Wall Street ai massimi storici. In quanto agli operai americani, è innegabile che stiano meglio. Nel 2019 l’economia Usa è entrata nel suo undicesimo anno di crescita consecutiva, un altro record. La disoccupazione è scesa al 3,5%, cosa che non accadeva da mezzo secolo. Si può discutere se questa statistica sia veramente significativa, poiché non tiene conto del fenomeno della disoccupazione nascosta o degli inattivi scoraggiati. Ultimamente però anche questi tendono a diminuire. Le donne hanno superato gli uomini nel godere di questo boom di posti di lavoro. I salari salgono del 3%, più dell’inflazione.
Poiché la stragrande maggioranza degli economisti considera Trump una sciagura, i loro commenti tendono a sottolineare il «lato oscuro» di questo boom: non solo la disoccupazione nascosta ma anche l’aumento delle diseguaglianze. Tutti problemi veri, ma che esistevano già sotto Barack Obama, al quale peraltro vanno «attribuiti» i primi sette anni di questa ripresa. C’è poi la condanna generalizzata della guerra dei dazi contro la Cina, che secondo la maggioranza degli esperti ha danneggiato i consumatori americani. Di questo danno però non si vede traccia nelle statistiche dell’inflazione: l’aumento dei prezzi al consumo resta al 2% annuo, cioè esattamente dov’era prima dei dazi. Se i prezzi non salgono e l’occupazione cresce, non si vede dove stia nascosto il danno dei dazi.
«America First» è uno slogan che non piace all’élite di Davos, però quest’ultima non vide emergere i nazionalismi economici, i sovranismi e i protezionismi, quando vennero praticati dalla Cina e dall’India, molti anni prima che apparisse sulla scena l’Amministrazione Trump. Il presidente americano naturalmente tende ad attribuirsi troppi meriti. I cicli dell’economia non vengono decisi per decreto dai governi, e il ciclo positivo negli Stati Uniti ebbe inizio col suo predecessore. Né Trump può attribuirsi la paternità di un’altra novità positiva per l’economia americana che è la raggiunta autosufficienza energetica: anche quella ebbe inizio sotto la presidenza Obama.
Di suo, Trump ha aggiunto come carburante della crescita una riforma fiscale che ha ridotto la pressione delle tasse sulle imprese e ha innescato un rimpatrio di capitali esteri da parte delle multinazionali. Anche la sua deregulation ambientale – purtroppo – ha aiutato la crescita. Su questo terreno lui però coglie le contraddizioni di altri leader che si proclamano ambientalisti. Xi Jinping formalmente aderisce agli accordi di Parigi, però appena ha temuto un rallentamento della crescita ha rilanciato il carbone, e le emissioni cinesi di CO2 continuano ad aumentare.
Macron si è rimangiato la carbon tax di fronte alla protesta dei gilet gialli, un altro caso in cui la crescita è stata preferita alla decrescita sostenibile. Molti nell’audience di Davos sono inorriditi quando Trump si è attribuito il merito di una «crescita inclusiva», però per la classe operaia americana è prioritario quel che è avvenuto negli ultimi tre anni cioè l’aumento di lavoro e di salari; accettano le diseguaglianze se queste sono inserite in un contesto di miglioramento del loro benessere. Sul terreno del protezionismo la Trumponomics ha rubato tante idee alla sinistra. Basta guardare al nuovo trattato commerciale con Canada e Messico, quel Usmca (United States Mexico Canada Agreement) che ha sostituito il Nafta.
La Casa Bianca ha strappato maggiori garanzie a favore degli operai statunitensi, proprio come chiedevano i sindacati metalmeccanici: è aumentata la percentuale di componenti «made in Usa» obbligatoria perché un’auto possa essere importata negli Stati Uniti senza dazi; è aumentato il salario minimo richiesto per le fabbriche messicane. Non è un caso se l’Usmca è il primo trattato dagli anni Sessanta che ha avuto l’approvazione della confederazione sindacale Afl-Cio. Perciò anche i democratici l’hanno approvato al Congresso. Quei colletti blu del Michigan, Ohio, Wisconsin e Pennsylvania che nel 2016 votarono per Trump anziché per Hillary Clinton, hanno qualche ragione di pensare che fecero la scelta giusta. E dunque potrebbero rivotarlo il 3 novembre di quest’anno.
Il presidente campa di rendita sui due eventi che hanno aperto l’anno: l’uccisione di Soleimani e la tregua con la Cina. Su entrambi i democratici hanno messaggi incoerenti. Passata la sbandata filo-iraniana, e poiché non c’è stata finora la terza guerra mondiale, la sinistra non appare vincente in politica estera. Sulla Cina, ora accusa Trump di non avere ottenuto abbastanza, quindi di aver abbassato alcuni dazi troppo presto. Ma fino a ieri la critica prevalente a Trump era di danneggiare la crescita col protezionismo. L’impressione è che lui sogni un duello finale contro Bernie Sanders. L’avversario ideale perché «quasi un comunista»? Di certo, se non avviene un disastro da qui al 3 febbraio, un’economia in forma come l’attuale non favorisce i candidati più radicali come Sanders o Elizabeth Warren. In quanto all’impeachment, come tutti i copioni dal finale troppo scontato, non sta appassionando gli americani né li tiene col fiato sospeso. Probabilmente non è questo che sposterà voti in un senso o nell’altro.