Un’arte faticosa e complicata
Una sfida impari quella che si è consumata sul palco del Teatro Foce di Lugano che ha ospitato I danni del pomodoro di e con Luca Spadaro: lo spettacolo proposto era in concomitanza con due serate del festival di Sanremo. Pertanto di pubblico in sala ce n’era pochino. Peccato perché valeva la pena assistervi. Spadaro, abile drammaturgo e regista, questa volta aveva scelto di misurarsi anche come attore. Tutto sotto lo sguardo di Silvia Pietta, allieva e interprete preferita, per l’occasione occhio esterno sulla resa interpretativa del suo mentore.
Come una sorta di confessione artistica costruita sulla falsariga de I danni del tabacco, celebre monologo di Cechov, la versione di Spadaro prende spunto da una notizia letta su un giornale: la morte per sfinimento di un giovane africano reclutato illegalmente per la raccolta di pomodori in Puglia. Una schiavitù che spesso diventa letale per disperati come l’infelice vittima. L’autore, come nella conferenza cechoviana, esce dal tema di una pseudo-conferenza ortofrutticola, si lascia alle spalle il pomodoro e cede il passo a un bilancio artistico di mezz’età, una riflessione personale, quasi autobiografica, sulle fatiche del fare teatro che racconta su attrezzi di ginnastica da camera, uno stepper e una bicicletta. Strumenti lontanamente simbolici ma che, oltre a produrre sudore e stanchezza a cui ormai non si può più rinunciare, scopriamo essere dei generatori per i fari sull’attore, necessari per lo svolgimento dello spettacolo. Una sorta di vicolo cieco (o buio) contro cui battersi. Come la trappola della memoria (fintamente) zoppicante, incubo di ogni protagonista teatrale, alla pari di una costruita goffaggine sui movimenti e sugli oggetti.
Insomma, I danni del pomodoro ci offre una versione insolita di Spadaro, efficace sia come penna sia nella recitazione. Una prova che conferma le sue capacità di regista scrupoloso, sinceramente e caparbiamente votato alla scoperta di quel fantomatico attore specchio, nato da una costola di Stanislavskij e proiettato nella ricerca di una relazione fra Neuroscienze e tecniche di recitazione. Per ora, ci lasciamo illudere dall’immagine riflessa di un attore appassionato, immerso in una pommarola fatta in casa, prigioniero di un mondo che è anche amaro caporalato di vita. Un attore impegnato a rispondere a domande esistenziali su come raccontare e restituire l’attualità a teatro, ma anche nel regalare uno spettacolo gradevole e ironico, gioco allusivo divertito e convincente.