Kurdistan iracheno – Votata l’indipendenza in un referendum voluto dal presidente Barzani, che ora dovrà fare i conti con il timore di tutti a livello regionale e internazionale
Sogno, chimera, abbaglio? Visto dall’Europa il referendum per l’indipendenza del Kurdistan iracheno che si è svolto il 25 settembre scorso assomiglia tanto a un salto nel buio, anche se la gioia dei curdi per il risultato è storicamente e umanamente comprensibile. Dopo essere stati imbrogliati, perseguitati, gasificati, deportati, discriminati ormai da un secolo a questa parte, il 91,8% dei curdi dell’Iraq hanno votato «sì» all’indipendenza, con un’affluenza alle urne del 78%. Ma hanno dato luce verde a un gioco pericolosissimo, talmente inquietante in prospettiva da spingere i principali attori internazionali ad invitarli a desistere. Non lo voleva Baghdad che lo ha proibito ritenendolo incostituzionale, non intende discuterne il risultato e minaccia un totale embargo economico.
Non era gradito nemmeno agli Stati Uniti che pure nei curdi hanno avuto, e hanno ancora, i migliori alleati nella lotta all’Isis in Siria e nello stesso Iraq. Non le Nazioni Unite, che hanno espresso il loro parere contrario per bocca del segretario generale Antonio Guterres. Dal canto suo, la ministra degli Esteri dell’Unione Europea, Federica Mogherini, lo ha definito «controproducente» e algidamente si è limitata a caldeggiare un dialogo «pacifico e costruttivo» tra Erbil (capitale in pectore del Kurdistan indipendente) e Baghdad. Molto più prudente è stata invece la Russia che nel giugno scorso ha anticipato di non essere contraria alla consultazione popolare, poi – zitta e quatta – ha proceduto a perfezionare l’accordo tra la Rosneft, la gigantesca compagnia petrolifera di cui lo Stato controlla la maggioranza, e il Governo Regionale Curdo per un volume d’affari di quattro miliardi di dollari in nove mesi. Volendo essere cinici, possiamo anche aggiungere che della stabilità dell’Iraq dopo il referendum, a Mosca non sembra importare molto, visto che ormai si inserisce in qualsiasi crisi mediorientale pur di spiazzare gli Stati Uniti e/o ricostruire mattone dopo mattone il proprio ruolo di superpotenza nella regione. La Siria insegna.
Diverso il caso di Israele, l’unico paese a congratularsi apertamente per il referendum: collabora militarmente da anni coi curdi nella lotta al terrorismo islamico, e dal Kurdistan iracheno riceve l’80% del suo approvvigionamento di greggio, ma soprattutto in un futuro più o meno prossimo i curdi potrebbero rivelarsi preziosi alleati per combattere paesi alleati e/o «sudditi» dell’Iran, il suo nemico numero uno. In Iran i curdi sono circa 6 milioni (più o meno il 10% della popolazione); nella Siria – debitrice a Teheran della sopravvivenza del regime di Bashar al-Assad – meno di due milioni (15%); nell’Iraq diventato una sorta di protettorato iraniano sono da 4 milioni e mezzo a 5 milioni e mezzo (dal 15 al 20% degli abitanti), per finire con la comunità curda più numerosa, quella turca, che è stimata tra i 12 e i 15 milioni pari al 20% della popolazione. E proprio dai paesi che, dopo la prima guerra mondiale e la dissoluzione dell’Impero ottomano, si sono ritrovati ad ospitare minoranze curde, sono arrivate le proteste più vibranti e le minacce militari contro il Kurdistan iracheno formalmente indipendente.
Il generale Qassem Soleimani, capo in testa delle Forze armate iraniane e della Niru-ye Qods, l’unità delle Guardie Rivoluzionarie (pasdaran) che opera all’estero, già la sera del 24 settembre ha ammassato carri armati sul confine del Kurdistan iracheno a titolo intimidatorio. La ragione ufficiale dell’ostilità di Teheran al referendum è stata riassunta nel timore che l’indipendenza dei curdi iracheni «indebolisca la lotta contro l’Isis». Nobile preoccupazione, senza dubbio, ma Massoud Barzani, (il presidente del fino ad oggi semi-autonomo Governo Regionale Curdo nell’ambito della federazione irachena), Barzani – dicevamo – che quel referendum lo ha indetto e fortemente voluto, non ha mai detto di voler abbandonare la lotta allo Stato Islamico. Perché questo succeda, l’esercito iracheno magari supportato dalle Forze di Mobilitazione Popolare sciite, addestrate e finanziate dall’Iran, dovrebbe intervenire pesantemente contro i guerriglieri curdi (peshmerga) «distraendoli» dal fronte della lotta all’Isis. Ma soprattutto Massoud Barzani non può abbandonare la lotta all’Isis.
Sa meglio di chiunque altro che l’Isis, sconfitto in Siria e in Iraq, non aspetta altro che andare a nascondersi sulle montagne del Kurdistan e smettere di combatterlo gli costerebbe gli aiuti economici e militari degli Stati Uniti. Stati Uniti che – nonostante si siano opposti al referendum – in teoria costituiscono una garanzia anche contro eventuali reazioni scomposte al referendum medesimo da parte non solo dell’Iraq, ma anche dell’Iran e della Turchia. Teheran ha ammassato truppe sul confine del Kurdistan iracheno, come abbiamo detto, fin dal 24 settembre. Il 26 successivo, l’Iraq e la Turchia hanno pensato bene di iniziare manovre militari congiunte a ridosso del medesimo confine.
Il timore di tutti, a livello regionale e internazionale, è che – dopo il referendum curdo – in Medio Oriente si inneschi un’altra catena di conflitti; che l’Iraq, ancora alle prese con una stabilizzazione che dal 2003 sembra non arrivare mai, si spacchi lungo le sue faglie etnico-confessionali ed infine che le comunità curde in Turchia, Iran e Siria vogliano imitare l’esempio di quella irachena. Sotto questo profilo Erdoğan è il capo di Stato più nervoso e che si agita di più. Teme che l’esempio iracheno risvegli in casa propria la lotta armata e il terrorismo del Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, creato e guidato da Abdullah Öcalan fino al 15 febbraio 1999 quando venne catturato dai servizi segreti turchi in Kenya. Da allora marcisce in carcere. Carcere dal quale Apo, come viene chiamato, è sceso a più miti consigli suggerendo ai suoi uomini di tentare la via del dialogo con Ankara nel 2006 e ancora nel 2013.
Nel frattempo qualche diritto in più i curdi di Turchia lo avevano ottenuto: il diritto di parlare la propria lingua, di stampare giornali propri, di creare propri partiti, ma il tutto è naufragato nella dittatura instaurata da Erdoğan all’indomani del tentato colpo di Stato militare del 15 luglio 2016. Il dialogo col Pkk, il presidente turco peraltro lo aveva già interrotto l’anno prima, nel 2015 quando, col moltiplicarsi degli attentati in Turchia, incolpava sempre in prima istanza il Pkk piuttosto che l’Isis. E non è un mistero che, partecipando alla lotta contro l’Isis (anche quando non richiesta), la Turchia abbia colpito innanzitutto le basi del Pkk in Siria dove i curdi siriani hanno creato un proprio sistema di regioni autonome, di cui una, quella occidentale (Rojava in lingua curda) si considera ormai di fatto indipendente e dove il Pkk viene ritenuto un buon alleato contro Bashar al-Assad.
In Iraq il Pkk invece non è riuscito a impiantarsi stabilmente, sebbene abbia tentato soprattutto nella provincia di Sinjar, perché i peshmerga di Barzani glielo hanno sempre impedito spesso in collaborazione con le stesse forze turche. Anche per questo Erdoğan si è letteralmente infuriato per il referendum e, oltre a minacciare di chiudere l’oleodotto Kirkuk-Ceyhan (attraverso il quale 500.000 barili di greggio al giorno dal Kurdistan iracheno raggiungono il Mediterraneo via Turchia), il 26 settembre ha orchestrato le manovre militari congiunte con l’esercito iracheno. In aggiunta, la Turchia si dice seriamente preoccupata per le sorti delle minoranze turkmene e arabe che abitano a Kirkuk. È ben vero che a Kirkuk il 19 settembre scorso si sono già verificati scontri tra curdi e turkmeni, ma il vero problema è un altro. Le province di Kirkuk e Sinjar nella mappa ufficiale delle province irachene non sono comprese tra quelle curde, ma sono state conquistate in armi dai peshmerga nel corso della battaglia per liberare Mosul dall’Isis.
Pertanto, quando hanno detto «sì» all’indipendenza del Kurdistan «e zone limitrofe», i curdi iracheni hanno indirettamente approvato anche l’annessione al Kurdistan di Kirkuk e Sinjar. È soprattutto questa la forzatura che ha spinto Baghdad a proclamare incostituzionale il referendum. Se poi si considera che a Kirkuk ci sono i giacimenti petroliferi più grandi dell’Iraq, attualmente sfruttati «in condominio» dal governo centrale federale e da quello regionale curdo (350’000 barili/giorno Baghdad, 150’000 Erbil, che transitano tutti per l’oleodotto Kirkuk-Ceyhan), si capisce meglio tutta la rabbia del primo ministro Haydar al-Abadi. Senza mettere nel conto che i proventi del greggio e la complessa situazione sul terreno potrebbero tornare a mettere in rotta di collisione le stesse fazioni curde, il Puk (Unione patriottica del Kurdistan) dell’ex presidente iracheno Jalal Talabani (deceduto il 3 ottobre) e il Kdp (Partito democratico del Kurdistan) del governatore regionale Massoud Barzani. La speranza di tutti è che Barzani usi il risultato del referendum solo per strappare al governo federale un grado maggiore di autonomia e una fetta più grande della torta petrolifera, senza spingersi oltre.